Le note della triste canzone del musicista uscivano dal suo trombone arrugginito e venivano portate via dal vento, svolazzanti come i fazzoletti sulle teste delle donne in fila sui gradini della chiesa, già immerse nella loro litania domenicale prim'ancora di sedersi sulle panche di legno, sotto le arcate gotiche e le vetrate a colori della casa di dio. Il musicista, un vecchio immigrato mezzo ubriaco vestito in stracci consumati e sporchi, suonava la nostalgia per il suo lontano paese, ricordando chissà quali bei giorni della sua gioventù ormai andata, e mentre suonava delle lacrime scendevano lentamente dai suoi occhi socchiusi e scivolavano nella folta barba incolta, ma nessuno si accorse di loro, neanche il bimbo che, impietosito, chiese alla madre degli spiccioli e li lanciò nel cappello che il vecchio aveva poggiato sull'asfalto davanti a sé.
Monday, November 26, 2012
Wednesday, November 21, 2012
Emme come Mosca.
Esci dall'aeroporto di Sheremyetevo, il cielo è di un grigio cupo che più cupo non si può. Gli alberi sono spogli, la terra nera, i palazzi sporchi, le macchine ricoperte da una patina nerognola di fango e smog: respiri a pieni polmoni quell'aria inquinata ma così cara alla tua memoria nostalgica, e ti senti bene. Sul tabellone dei treni Aereoexpress che portano in città c'è scritto che la prossima navetta partirà tra pochi minuti, direzione “M. Belorusskij Vokzal”.
Emme, come Mosca.
La navetta è nuova, pulita, i sedili comodi e di un colore rosso acceso, e le porte di vetro scorrevoli si aprono premendo un bottone luminoso. Tutto è in perfetto stile europeo, come anche l'aeroporto ristrutturato da poco, e dà l'impressione di un luogo piacevolmente sterile. Dai soffitti del treno pendono televisori con schermi a cristalli liquidi, sui quali trasmettono i soliti video senza importanza sui leoni e le gazzelle della savana, che servono solo a distrarre i passeggeri dalle brutte case che scorrono velocemente al di là dei loro finestrini, appena a pochi metri dalle capsule ermetiche dei loro vagoni.
Fuori, sotto queste nuvole di piombo, si stende la città dove sei cresciuta.
La navetta impiega solo mezzora ad arrivare – ti ricordi quando quell'Aeroexpress non era altro che una delle comunissime elektricka che corrono ancora oggi verso la periferia, e ci metteva quasi due ore? – esci dal treno, vieni travolta dalla fiumana di gente – questa è una città che corre, baby, te ne sei dimenticata? – e, siccome non ti ricordi in che direzione andare, ti lasci trasportare fiduciosa dalla folla. Infatti, dopo qualche minuto, eccola, la grande M rossa a zigzag.
Emme, come metro.
Emme, come Mosca.
La navetta è nuova, pulita, i sedili comodi e di un colore rosso acceso, e le porte di vetro scorrevoli si aprono premendo un bottone luminoso. Tutto è in perfetto stile europeo, come anche l'aeroporto ristrutturato da poco, e dà l'impressione di un luogo piacevolmente sterile. Dai soffitti del treno pendono televisori con schermi a cristalli liquidi, sui quali trasmettono i soliti video senza importanza sui leoni e le gazzelle della savana, che servono solo a distrarre i passeggeri dalle brutte case che scorrono velocemente al di là dei loro finestrini, appena a pochi metri dalle capsule ermetiche dei loro vagoni.
Fuori, sotto queste nuvole di piombo, si stende la città dove sei cresciuta.
La navetta impiega solo mezzora ad arrivare – ti ricordi quando quell'Aeroexpress non era altro che una delle comunissime elektricka che corrono ancora oggi verso la periferia, e ci metteva quasi due ore? – esci dal treno, vieni travolta dalla fiumana di gente – questa è una città che corre, baby, te ne sei dimenticata? – e, siccome non ti ricordi in che direzione andare, ti lasci trasportare fiduciosa dalla folla. Infatti, dopo qualche minuto, eccola, la grande M rossa a zigzag.
Emme, come metro.
Monday, November 12, 2012
Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 4.
(Per la prima parte, clicca QUI)
(Per la seconda parte, clicca QUI)
(Per la terza parte, clicca QUI)
(Lei)
Rimanemmo così per un minuto buono, e la situazione, vista dall'esterno, doveva sembrare abbastanza buffa. Nessuno dei due aveva intenzione di parlare, ci bastava guardarci, in silenzio. Poi, sentii una vampata di calore al viso, e abbassai per prima gli occhi, tornando a fissare, senza in realtà vederla, la pagina che fino a poco tempo fa stavo leggendo. Sentivo pulsare forte il sangue nelle orecchie. Cercai di asciugare le mani sudaticce strofinando le pagine del libro tra le dita, nel vano tentativo di calmarmi, di riprendere controllo di me stessa. Mi era capitato altre volte che gli uomini mi fissassero, che andassero cercando il mio sguardo, che si aspettassero che ricambiassi il loro interesse, ma non sono mai stata al gioco, non ho mai risposto a uno di quei tentativi di approccio, ho sempre tenuto la testa fermamente girata nella direzione opposta, le labbra serrate e le sopracciglia alzate in quell'espressione tipica di chi è seriamente scocciato, probabilmente da fuori sarò sembrata una che se la tira, ma la realtà è che ho sempre avuto paura, ho sempre avuto paura di ciò che avrei potuto trovare dietro quegli sguardi famelici, quei sorrisetti ammiccanti, quel pavoneggiarsi così tipicamente maschile. E invece quel giorno, per la prima volta, seduta lì in una poltroncina della Sala Borsa, per la primissima volta ho guardato un uomo senza pudore, desiderandolo e sentendomi desiderata, ed era una sensazione pazzesca, sentivo il cuore fare tumtumtum e la pelle maledetta che arrossisce sempre per un nonnulla, era tutto così nuovo ed emozionante, ma c'era anche una buona dose di panico: e ora, come dovevo comportarmi? In queste occasioni, cosa si dice, cosa si fa?
(Lui)
È stupenda. Non è di quel genere di ragazze che uno definirebbe fighe, però ha una bellezza tutta sua, particolare, affascinante. È alta, ossuta, la pelle tirata sugli zigomi, il viso appuntito, gli occhi che sembrano quasi a mandorla, di un verde bottiglia intenso, i capelli lunghi e lisci, e non riesco a capire se sono davvero rossi o se è la luce che li fa sembrare tali, ma al tatto devono essere morbidi e vellutati, lo so, lo capisco da come si poggiano morbidamente sulle sue spalle, e sulla curva del seno quasi inesistente, è piatta come una tavola, con quel maglioncino nero a girocollo che la cinge perfettamente, quei jeans attillati che le stringono quei due stecchini che sono le sue gambe, e lei in tutto questo è stupenda. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, è stupenda anche ora che è diventata rossa come un gambero, non avrà mica vergogna di me? In effetti non sono nelle mie condizioni migliori, ma non sono neanche così impresentabile, suvvia, ho visto momenti peggiori. No, no, la vedo, la capisco, mi sembra di poter leggere il suo pensiero, e non è per il mio aspetto, è qualcos'altro... È imbarazzata, ecco, si, non sa come comportarsi, ma suvvia, piccola, con me non devi farti di questi problemi, davvero! Sii tranquilla, ecco, vedi, ti sto sorridendo, non sono malvagio, brava, ah!, che stretta al cuore ora che anche tu mi sorridi, sei bellissima, sei stupenda, te l'ha mai detto nessuno che con quel sorriso riusciresti a conquistare il mondo intero? Ma certo, che stupido che sono, certo che te l'avranno detto, e chissà in quanti, poi... Si, lo ammetto, sono geloso, ma mi rendo conto che è da stupidi, quindi cercherò di non esserlo, non lo sarò per te, se non lo vorrai. Mi hai ammaliato, dì la verità, sei una strega, una fattucchiera, dove hai nascosto la bacchetta magica? Sei qualcosa di mai visto, e io non sono uno che vede una donna per la prima volta, ora, non è per vantarmi, ma le mie esperienze le ho fatte, eppure tu sei diversa, tu non sei come tutte, perché con te mi basta guardarti, mi basta guardarti in questi tuoi splendidi occhi verdi e mi sento come se fossi a casa, mi sento sicuro, mi sento completo... Solo uno sguardo, dio mio, ci pensi, solo un tuo sguardo mi ha provocato tutta questa tempesta di emozioni dentro, tu pensa se aprissimo bocca e iniziassimo a parlare, il mio cuore probabilmente non reggerebbe l'emozione, esploderebbe, ricoprendo di schizzi di sangue tutto il primo piano della Sala Borsa, o forse no?, o forse è la magia del silenzio, questa? Se è così allora non voglio interromperlo, voglio mantenere la purezza di questo momento intatto, cristallino, come un diamante, ma non i diamanti tarocchi di piazza Verdi, quelli verdi marroni bianchi, no diamanti veri, tu sei un diamante vero, perché risplendi di luce tua, sei preziosa, sei unica, sei indescrivibile. Non ho mai creduto all'amore a prima vista, davvero, piccola, non ci ho mai creduto, non sono nemmeno certo di aver mai creduto all'amore in generale, ma tu sei capace di cambiare tutte le mie opinioni, tu sei capace di distruggere tutte le mie logiche, di prendere la mia visione del mondo e stravolgerla, metterla sottosopra, rivoltarla come un calzino, e io te lo lascio fare, fai di me e della mia vita quello che vuoi! Basta che continui a guardarmi, tu, esserino splendido venuto da non so quale pianeta, basta che continui a guardarmi, e a sorridermi, e a farmi sognare, ti prego, non andare via, no, resta con me, ti prego, non sopporterei di rimanere solo, di nuovo solo, no, ti prego.
(Per la seconda parte, clicca QUI)
(Per la terza parte, clicca QUI)
(Lei)
Rimanemmo così per un minuto buono, e la situazione, vista dall'esterno, doveva sembrare abbastanza buffa. Nessuno dei due aveva intenzione di parlare, ci bastava guardarci, in silenzio. Poi, sentii una vampata di calore al viso, e abbassai per prima gli occhi, tornando a fissare, senza in realtà vederla, la pagina che fino a poco tempo fa stavo leggendo. Sentivo pulsare forte il sangue nelle orecchie. Cercai di asciugare le mani sudaticce strofinando le pagine del libro tra le dita, nel vano tentativo di calmarmi, di riprendere controllo di me stessa. Mi era capitato altre volte che gli uomini mi fissassero, che andassero cercando il mio sguardo, che si aspettassero che ricambiassi il loro interesse, ma non sono mai stata al gioco, non ho mai risposto a uno di quei tentativi di approccio, ho sempre tenuto la testa fermamente girata nella direzione opposta, le labbra serrate e le sopracciglia alzate in quell'espressione tipica di chi è seriamente scocciato, probabilmente da fuori sarò sembrata una che se la tira, ma la realtà è che ho sempre avuto paura, ho sempre avuto paura di ciò che avrei potuto trovare dietro quegli sguardi famelici, quei sorrisetti ammiccanti, quel pavoneggiarsi così tipicamente maschile. E invece quel giorno, per la prima volta, seduta lì in una poltroncina della Sala Borsa, per la primissima volta ho guardato un uomo senza pudore, desiderandolo e sentendomi desiderata, ed era una sensazione pazzesca, sentivo il cuore fare tumtumtum e la pelle maledetta che arrossisce sempre per un nonnulla, era tutto così nuovo ed emozionante, ma c'era anche una buona dose di panico: e ora, come dovevo comportarmi? In queste occasioni, cosa si dice, cosa si fa?
(Lui)
È stupenda. Non è di quel genere di ragazze che uno definirebbe fighe, però ha una bellezza tutta sua, particolare, affascinante. È alta, ossuta, la pelle tirata sugli zigomi, il viso appuntito, gli occhi che sembrano quasi a mandorla, di un verde bottiglia intenso, i capelli lunghi e lisci, e non riesco a capire se sono davvero rossi o se è la luce che li fa sembrare tali, ma al tatto devono essere morbidi e vellutati, lo so, lo capisco da come si poggiano morbidamente sulle sue spalle, e sulla curva del seno quasi inesistente, è piatta come una tavola, con quel maglioncino nero a girocollo che la cinge perfettamente, quei jeans attillati che le stringono quei due stecchini che sono le sue gambe, e lei in tutto questo è stupenda. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, è stupenda anche ora che è diventata rossa come un gambero, non avrà mica vergogna di me? In effetti non sono nelle mie condizioni migliori, ma non sono neanche così impresentabile, suvvia, ho visto momenti peggiori. No, no, la vedo, la capisco, mi sembra di poter leggere il suo pensiero, e non è per il mio aspetto, è qualcos'altro... È imbarazzata, ecco, si, non sa come comportarsi, ma suvvia, piccola, con me non devi farti di questi problemi, davvero! Sii tranquilla, ecco, vedi, ti sto sorridendo, non sono malvagio, brava, ah!, che stretta al cuore ora che anche tu mi sorridi, sei bellissima, sei stupenda, te l'ha mai detto nessuno che con quel sorriso riusciresti a conquistare il mondo intero? Ma certo, che stupido che sono, certo che te l'avranno detto, e chissà in quanti, poi... Si, lo ammetto, sono geloso, ma mi rendo conto che è da stupidi, quindi cercherò di non esserlo, non lo sarò per te, se non lo vorrai. Mi hai ammaliato, dì la verità, sei una strega, una fattucchiera, dove hai nascosto la bacchetta magica? Sei qualcosa di mai visto, e io non sono uno che vede una donna per la prima volta, ora, non è per vantarmi, ma le mie esperienze le ho fatte, eppure tu sei diversa, tu non sei come tutte, perché con te mi basta guardarti, mi basta guardarti in questi tuoi splendidi occhi verdi e mi sento come se fossi a casa, mi sento sicuro, mi sento completo... Solo uno sguardo, dio mio, ci pensi, solo un tuo sguardo mi ha provocato tutta questa tempesta di emozioni dentro, tu pensa se aprissimo bocca e iniziassimo a parlare, il mio cuore probabilmente non reggerebbe l'emozione, esploderebbe, ricoprendo di schizzi di sangue tutto il primo piano della Sala Borsa, o forse no?, o forse è la magia del silenzio, questa? Se è così allora non voglio interromperlo, voglio mantenere la purezza di questo momento intatto, cristallino, come un diamante, ma non i diamanti tarocchi di piazza Verdi, quelli verdi marroni bianchi, no diamanti veri, tu sei un diamante vero, perché risplendi di luce tua, sei preziosa, sei unica, sei indescrivibile. Non ho mai creduto all'amore a prima vista, davvero, piccola, non ci ho mai creduto, non sono nemmeno certo di aver mai creduto all'amore in generale, ma tu sei capace di cambiare tutte le mie opinioni, tu sei capace di distruggere tutte le mie logiche, di prendere la mia visione del mondo e stravolgerla, metterla sottosopra, rivoltarla come un calzino, e io te lo lascio fare, fai di me e della mia vita quello che vuoi! Basta che continui a guardarmi, tu, esserino splendido venuto da non so quale pianeta, basta che continui a guardarmi, e a sorridermi, e a farmi sognare, ti prego, non andare via, no, resta con me, ti prego, non sopporterei di rimanere solo, di nuovo solo, no, ti prego.
Saturday, November 10, 2012
Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 3.
(Per la prima parte, clicca QUI)
(Per la seconda parte, clicca QUI)
(Lei)
Camminai per un po' pensierosa in mezzo agli scaffali delle guide turistiche, degnandoli a malapena di pochi sguardi assenti, passando feci scorrere le punte delle dita sulla fila degli atlanti fotografici dai titoli dorati, e mi fermai davanti al reparto Viaggi. Mi concessi il piacere di tirare fuori qualche libro, rigirarlo tra le mani, sfogliarlo pigramente, leggere quello che c'era scritto sulla copertina di dietro, per poi rimetterlo a posto. Il momento di dover scegliere un nuovo libro da leggere è sempre stato il più entusiasmante per me, come quando hai un budget illimitato e sei di fronte a una cartina geografica, e non devi far altro che puntare il dito e dire Io andrò qui, e la mente già si eccita al pensiero di chissà cosa troverò, chissà cosa scoprirò, chissà quali sorprese mi riserverà la sorte. È il momento nel quale l'immaginazione è libera di pensare qualsiasi cosa, soprattutto se ci si ritrova davanti a qualcosa di completamente ignoto, qualcosa di cui non abbiamo assolutamente nessuna informazione, nessuna recensione, nessun commento, nulla. L'immaginazione allora è come un animale in libertà, che corre, corre, corre, fino a sfiancarsi, fino a cadere esausto sull'erba, ed è lì che finalmente apri la prima pagina del libro che hai scelto e incominci un nuovo viaggio. Valutai le varie opzioni che mi avevano incuriosita di più e alla fine presi un libro spesso, dalla copertina viola, con un inserto di fotografie a colori nel mezzo: “La leggenda delle montagne naviganti”, di Paolo Rumiz. Contenta della mia scelta, uscii dal reparto e mi diressi verso una delle poltroncine libere in corridoio. Il vantaggio di andare in Sala Borsa di sabato a quell'ora era che non c'era quasi nessuno, e non si aveva mai problema a trovare un posto dove accoccolarsi e leggere per il resto della giornata. Tuttavia, notai che un po' più in là, su una poltroncina identica alla mia, c'era un ragazzo seduto con lo sguardo fisso su un punto e lì per lì pensai che mi stesse osservando. Quando però mi girai di nuovo a guardarlo, era intento a studiare attentamente il pavimento. Cercai di liberare la mente e mi concentrai sulla prima pagina del libro. La carta al tatto era spessa e ruvida, come piace a me. Prometteva bene.
(Lui)
Chissà da quant'è che sto seduto qua, su questa poltrona così morbida, ti predispone proprio al pensiero, anche il luogo, con tutti questi libri polverosi che sembra che assorbano i rumori con le loro pagine, fanno sembrare tutti i suoni ovattati, come se provenissero da una stanza chiusa, o è solo colpa della stanchezza e dell'erba? Prima di venire a sedermi qua ho fatto un giretto per i vari piani, e questo mi è sembrato il posto più tranquillo, infatti quando sono arrivato non c'era nessuno, io ero l'unico, e mi piace il silenzio che c'è qua. Non che mi serva per leggere, infatti non ho preso nulla dagli scaffali, anche se mi sono fermato a dare un'occhiata ai giornali, per vedere se è successo qualcosa di nuovo in questo mondo, ma tanto, che vuoi che succeda? Gira e rigira le notizie son sempre quelle, o forse sono solo quelle che arrivano a noi che sono sempre le stesse, boh. Mi sarebbe piaciuto fare il reporter, mi sarebbe piaciuto andare in giro per il mondo a vedere cosa succede davvero nei vari Paesi i nomi dei quali sentiamo in continuazione alla tivù – e l'Iraq, e la Palestina, e la Corea, e la Libia – e che però non abbiamo neanche la più pallida idea di come siano fatti. Già, mi sarebbe piaciuto tanto, e l'avrei fatto con passione, però il lavoro da reporter è uno di quei lavori che non sai da dove cominciare, voglio dire, uno come fa a diventare un reporter? Io sto studiando Lettere, la laurea ancora non ce l'ho, ma tanto dubito che serva poi così tanto come vogliono farci credere, stupido pezzo di carta pieno di firme svolazzanti e di timbri, e non penso proprio che mi potrebbe servire per diventare un reporter.
Ero venuto qua quando ancora non c'era nessuno, e infatti ero l'unico fino a pochi secondi fa, perché ora si è venuta a sedere una ragazza, a pochi metri da me, e guarda caso io me ne stavo immobile con lo sguardo perso proprio sul punto dove si è seduta lei, così dopo qualche istante sono stato costretto a distogliere gli occhi, perché avrebbe potuto pensare che la stessi fissando, e alla gente non piace essere fissata, anche se non la stavo fissando, anzi, non l'ho nemmeno vista per bene, avete presente quando rilassate gli occhi e non mettete nulla a fuoco? Ecco, è così che vedono il mondo i miopi, io lo so perché porto gli occhiali, mi mancano tre gradi all'occhio destro e tre e mezzo al sinistro. Essere miopi è una gran rottura di palle, perché se usi le lenti a contatto devi sempre ricordarti di portartele appresso insieme al liquido e al contenitore, e se porti gli occhiali quando piove o nevica non ci vedi una minchia.
(Per la seconda parte, clicca QUI)
(Lei)
Camminai per un po' pensierosa in mezzo agli scaffali delle guide turistiche, degnandoli a malapena di pochi sguardi assenti, passando feci scorrere le punte delle dita sulla fila degli atlanti fotografici dai titoli dorati, e mi fermai davanti al reparto Viaggi. Mi concessi il piacere di tirare fuori qualche libro, rigirarlo tra le mani, sfogliarlo pigramente, leggere quello che c'era scritto sulla copertina di dietro, per poi rimetterlo a posto. Il momento di dover scegliere un nuovo libro da leggere è sempre stato il più entusiasmante per me, come quando hai un budget illimitato e sei di fronte a una cartina geografica, e non devi far altro che puntare il dito e dire Io andrò qui, e la mente già si eccita al pensiero di chissà cosa troverò, chissà cosa scoprirò, chissà quali sorprese mi riserverà la sorte. È il momento nel quale l'immaginazione è libera di pensare qualsiasi cosa, soprattutto se ci si ritrova davanti a qualcosa di completamente ignoto, qualcosa di cui non abbiamo assolutamente nessuna informazione, nessuna recensione, nessun commento, nulla. L'immaginazione allora è come un animale in libertà, che corre, corre, corre, fino a sfiancarsi, fino a cadere esausto sull'erba, ed è lì che finalmente apri la prima pagina del libro che hai scelto e incominci un nuovo viaggio. Valutai le varie opzioni che mi avevano incuriosita di più e alla fine presi un libro spesso, dalla copertina viola, con un inserto di fotografie a colori nel mezzo: “La leggenda delle montagne naviganti”, di Paolo Rumiz. Contenta della mia scelta, uscii dal reparto e mi diressi verso una delle poltroncine libere in corridoio. Il vantaggio di andare in Sala Borsa di sabato a quell'ora era che non c'era quasi nessuno, e non si aveva mai problema a trovare un posto dove accoccolarsi e leggere per il resto della giornata. Tuttavia, notai che un po' più in là, su una poltroncina identica alla mia, c'era un ragazzo seduto con lo sguardo fisso su un punto e lì per lì pensai che mi stesse osservando. Quando però mi girai di nuovo a guardarlo, era intento a studiare attentamente il pavimento. Cercai di liberare la mente e mi concentrai sulla prima pagina del libro. La carta al tatto era spessa e ruvida, come piace a me. Prometteva bene.
(Lui)
Chissà da quant'è che sto seduto qua, su questa poltrona così morbida, ti predispone proprio al pensiero, anche il luogo, con tutti questi libri polverosi che sembra che assorbano i rumori con le loro pagine, fanno sembrare tutti i suoni ovattati, come se provenissero da una stanza chiusa, o è solo colpa della stanchezza e dell'erba? Prima di venire a sedermi qua ho fatto un giretto per i vari piani, e questo mi è sembrato il posto più tranquillo, infatti quando sono arrivato non c'era nessuno, io ero l'unico, e mi piace il silenzio che c'è qua. Non che mi serva per leggere, infatti non ho preso nulla dagli scaffali, anche se mi sono fermato a dare un'occhiata ai giornali, per vedere se è successo qualcosa di nuovo in questo mondo, ma tanto, che vuoi che succeda? Gira e rigira le notizie son sempre quelle, o forse sono solo quelle che arrivano a noi che sono sempre le stesse, boh. Mi sarebbe piaciuto fare il reporter, mi sarebbe piaciuto andare in giro per il mondo a vedere cosa succede davvero nei vari Paesi i nomi dei quali sentiamo in continuazione alla tivù – e l'Iraq, e la Palestina, e la Corea, e la Libia – e che però non abbiamo neanche la più pallida idea di come siano fatti. Già, mi sarebbe piaciuto tanto, e l'avrei fatto con passione, però il lavoro da reporter è uno di quei lavori che non sai da dove cominciare, voglio dire, uno come fa a diventare un reporter? Io sto studiando Lettere, la laurea ancora non ce l'ho, ma tanto dubito che serva poi così tanto come vogliono farci credere, stupido pezzo di carta pieno di firme svolazzanti e di timbri, e non penso proprio che mi potrebbe servire per diventare un reporter.
Ero venuto qua quando ancora non c'era nessuno, e infatti ero l'unico fino a pochi secondi fa, perché ora si è venuta a sedere una ragazza, a pochi metri da me, e guarda caso io me ne stavo immobile con lo sguardo perso proprio sul punto dove si è seduta lei, così dopo qualche istante sono stato costretto a distogliere gli occhi, perché avrebbe potuto pensare che la stessi fissando, e alla gente non piace essere fissata, anche se non la stavo fissando, anzi, non l'ho nemmeno vista per bene, avete presente quando rilassate gli occhi e non mettete nulla a fuoco? Ecco, è così che vedono il mondo i miopi, io lo so perché porto gli occhiali, mi mancano tre gradi all'occhio destro e tre e mezzo al sinistro. Essere miopi è una gran rottura di palle, perché se usi le lenti a contatto devi sempre ricordarti di portartele appresso insieme al liquido e al contenitore, e se porti gli occhiali quando piove o nevica non ci vedi una minchia.
Friday, November 9, 2012
Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 2.
(Per la prima parte, clicca QUI)
(Lui)
Converse nere bucate calpestano cocci di vetro crunch crunch questo rumore mi ricorda la mandibola di un cavallo che si chiude sopra una mela o una carota, i vetri sono verdi marroni e bianchi e sbrilluccicano alla luce dei lampioni come tanti piccoli diamanti, sembrano preziosi e romantici, sembrano stelle su un firmamento d'asfalto, e invece sono dei banalissimi pezzettini di vetro, ma d'altronde, di notte, che differenza fa?
Converse nere bucate camminano sui cocci di vetro – non perché lo vogliono, ma perché in Piazza Verdi dopo una certa ora è inevitabile – e attraversano lo spazio in direzione di un gruppetto di persone sedute a terra. Verranno i tempi quando Piazza Verdi verrà circondata di pattuglie della Polizia e dei Carabinieri, per “ripulirla”, diranno loro, per “evitare il bivaccamento”, diranno, per “limitare lo spaccio e gli schiamazzi”. Verranno i tempi quando saranno messi dei tavoli e delle panche, protetti dai veicoli della strada da delle siepi, e camerieri col grembiule nero serviranno pesce e vino e formaggi freschi. Verranno i tempi quando gli sbirri ti chiederanno – a volte gentilmente, a volte tirandoti su bruscamente per il braccio, a volte agitando minacciosamente il manganello – di alzarti da terra ogniqualvolta che, preso dall'abitudine e dalla nostalgia, cercherai di riformare il solito cerchio con gli amici nell'unico spazio libero dai tavoli, in quei pochi metri quadri davanti al Piccolo, cercherai di ripetere in quell'umile gesto di sedersi a terra un debole tentativo di appello alla libertà e alla democrazia, perché in Piazza Verdi tutti sono liberi, e tutti sono uguali – dai pankabbestia coi cani alle ragazze in minigonna – e tutti, in Piazza Verdi, si siedono per terra. Eppure verranno a chiederti di alzarti, perché, sai, non è consentito, non più, ora servono per forza le sedie, o, se proprio vuoi, vatti a stravaccare da qualche altra parte. Verranno quei tempi, come erano già venuti in piazza Santo Stefano, e in un certo senso anche in piazza San Francesco – recintarono la chiesa dopo il terremoto, per motivi di sicurezza, dicevano, ma c'era qualcosa che non ci tornava, – verranno, ma non allora, non quella sera, e neanche quella dopo, e neanche quella dopo ancora, il ché, per noi, era già una buona prospettiva.
Converse nere bucate si spostano sui cocci di vetro attraverso la piazza in mezzo a decine di altre Converse nere – rosse gialle viola blu – bucate – a volte no – per arrivare da quel mucchietto di persone che sono i miei amici, seduti, ovviamente, a terra, sui sanpietrini rossi. Il mio avvicinamento grazie alla folla passa inosservato, così quando arrivo a loro giusto in quel momento c'è Max che fa Cicileo!, e io che ancora non ho fatto un solo tiro in tutta la serata e quindi sono il più lucido di tutti rispondo per primo Ieo!, facendo saltare tutti quanti dalla sorpresa, mi siedo in un buco libero infilandomi tra Grazia e Mary e sfilo la giolla dalle dita di Max. Bastardo, mi dice sorridendo Leo, la chitarra come sempre in mano, le dita che accarezzano le corde come se fosse una donna, e attacca a suonare una delle solite canzoni che si suonano qua, una di quelle con due o tre accordi al massimo, che conoscono tutti, e che tutti possono cantare anche da ubriachi. Dai, ho portato qualche birra, dico io togliendomi dalle spalle lo zaino che tintinna allegramente. Grande, passa qua, di nuovo la Peroni?, ma che schifo, vabbè, in mancanza d'altro.
(Lui)
Converse nere bucate calpestano cocci di vetro crunch crunch questo rumore mi ricorda la mandibola di un cavallo che si chiude sopra una mela o una carota, i vetri sono verdi marroni e bianchi e sbrilluccicano alla luce dei lampioni come tanti piccoli diamanti, sembrano preziosi e romantici, sembrano stelle su un firmamento d'asfalto, e invece sono dei banalissimi pezzettini di vetro, ma d'altronde, di notte, che differenza fa?
Converse nere bucate camminano sui cocci di vetro – non perché lo vogliono, ma perché in Piazza Verdi dopo una certa ora è inevitabile – e attraversano lo spazio in direzione di un gruppetto di persone sedute a terra. Verranno i tempi quando Piazza Verdi verrà circondata di pattuglie della Polizia e dei Carabinieri, per “ripulirla”, diranno loro, per “evitare il bivaccamento”, diranno, per “limitare lo spaccio e gli schiamazzi”. Verranno i tempi quando saranno messi dei tavoli e delle panche, protetti dai veicoli della strada da delle siepi, e camerieri col grembiule nero serviranno pesce e vino e formaggi freschi. Verranno i tempi quando gli sbirri ti chiederanno – a volte gentilmente, a volte tirandoti su bruscamente per il braccio, a volte agitando minacciosamente il manganello – di alzarti da terra ogniqualvolta che, preso dall'abitudine e dalla nostalgia, cercherai di riformare il solito cerchio con gli amici nell'unico spazio libero dai tavoli, in quei pochi metri quadri davanti al Piccolo, cercherai di ripetere in quell'umile gesto di sedersi a terra un debole tentativo di appello alla libertà e alla democrazia, perché in Piazza Verdi tutti sono liberi, e tutti sono uguali – dai pankabbestia coi cani alle ragazze in minigonna – e tutti, in Piazza Verdi, si siedono per terra. Eppure verranno a chiederti di alzarti, perché, sai, non è consentito, non più, ora servono per forza le sedie, o, se proprio vuoi, vatti a stravaccare da qualche altra parte. Verranno quei tempi, come erano già venuti in piazza Santo Stefano, e in un certo senso anche in piazza San Francesco – recintarono la chiesa dopo il terremoto, per motivi di sicurezza, dicevano, ma c'era qualcosa che non ci tornava, – verranno, ma non allora, non quella sera, e neanche quella dopo, e neanche quella dopo ancora, il ché, per noi, era già una buona prospettiva.
Converse nere bucate si spostano sui cocci di vetro attraverso la piazza in mezzo a decine di altre Converse nere – rosse gialle viola blu – bucate – a volte no – per arrivare da quel mucchietto di persone che sono i miei amici, seduti, ovviamente, a terra, sui sanpietrini rossi. Il mio avvicinamento grazie alla folla passa inosservato, così quando arrivo a loro giusto in quel momento c'è Max che fa Cicileo!, e io che ancora non ho fatto un solo tiro in tutta la serata e quindi sono il più lucido di tutti rispondo per primo Ieo!, facendo saltare tutti quanti dalla sorpresa, mi siedo in un buco libero infilandomi tra Grazia e Mary e sfilo la giolla dalle dita di Max. Bastardo, mi dice sorridendo Leo, la chitarra come sempre in mano, le dita che accarezzano le corde come se fosse una donna, e attacca a suonare una delle solite canzoni che si suonano qua, una di quelle con due o tre accordi al massimo, che conoscono tutti, e che tutti possono cantare anche da ubriachi. Dai, ho portato qualche birra, dico io togliendomi dalle spalle lo zaino che tintinna allegramente. Grande, passa qua, di nuovo la Peroni?, ma che schifo, vabbè, in mancanza d'altro.
Thursday, November 8, 2012
Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 1.
(Lei)
Girai a Nord, poi ad Est, poi di nuovo a Nord, ed uscii su Piazza Maggiore. Quella di ragionare come se fossi un boy scout con una bussola nel mezzo di una foresta era una cosa che mi aveva insegnato zio Alfredo, il fratello di mio padre, quando io ero ancora una bambina: la destra e la sinistra sono delle cose troppo soggettive, diceva, ciò che è per me la destra per te che mi stai di fronte è la sinistra, e viceversa, meglio affidarsi ai quattro punti cardinali, diceva, che almeno quelli stan sempre fermi lì, non si muovono, e ciò che è Nord per me lo è anche per te, lo deve essere per forza. Io rimanevo sempre ammaliata da ciò che mi diceva zio Alfredo, e cercavo di seguire i suoi consigli alla lettera. Era una figura strana nella nostra famiglia, sapevo che a mio padre lui non andava molto a genio, ma non capivo bene il perché. Veniva a trovarci raramente, il più delle volte solo per le feste di Natale, ma ogni volta che veniva aveva sempre una storia nuova da raccontare; infatti, zio Alfredo era un gran viaggiatore. Ho passato quasi tutti i miei Natali ad andargli dietro, a seguirlo per tutta la casa come un segugio e a pregarlo di raccontarmi qualcosa, finché lui, ridendo, non si arrendeva, si accomodava sul divano davanti al camino, mi faceva sedere sulle sue ginocchia e mi parlava, per ore, di terre lontane, di persone in vestiti colorati, di animali feroci che abitano in giungle mai toccate da piede umano, di cibi dai sapori indescrivibili (dolci ma amari, salati ma insipidi, teneri ma croccanti), e io rimanevo a bocca aperta e gli occhi spalancati a cercare di immaginarmi tutto ciò, e la notte mi giravo e rigiravo nel letto, senza riuscire a prendere sonno, pensando a come sarebbe bello poter seguire lo zio in uno dei suoi viaggi, e allora il giorno dopo mi facevo coraggio e glielo andavo a chiedere, e lui, ogni volta, scoppiava a ridere, ma non era una risata offensiva, deridente, no, era più una risata triste, e mi rispondeva semplicemente Non è possibile piccola, e io sapevo che non era una cosa che dipendeva da lui, che se avesse potuto mi avrebbe portata con sé, glielo leggevo negli occhi, in quegli occhi chiari e sinceri, così teneri, così diversi dagli occhi neri e severi di mio padre, e se proprio non si poteva fare ci doveva essere un motivo importante, anche se non sono mai riuscita a trovare le forze per chiederglielo, qual era, questo motivo. Così, mi accontentavo di ascoltare i suoi racconti, le sue avventure, e avrei potuto farlo ininterrottamente, per giorni, e probabilmente anche lo zio Alfredo avrebbe potuto parlare per tutto il tempo che avevamo a disposizione, se non fosse per mia madre che veniva a interromperci ogni volta, mi rimproverava per essere così assillante, mi diceva che dovevo lasciare stare in pace lo zio, che era venuto qui per riposarsi, mica per fare il cantastorie, anzi, Alfredo, vieni di là con me, vieni a riposarti un po' con me, Maurizio è uscito e non tornerà prima di stasera, ti va di farmi compagnia? Così, mentre mia madre, chiudendo dietro di sé la porta, guidava lo zio in direzione della camera da letto, tenendolo per un braccio e ridendo istericamente come una ragazzina, io rimanevo da sola nella grande sala, seduta sul finto tappeto persiano davanti a un fuoco scoppiettante, e vedendo in quelle lingue danzanti i personaggi dei racconti di mio zio.
Poi, un giorno, mio padre tornò prima del previsto. Ci fu un gran baccano quella sera, a me fu proibito di uscire dalla cameretta, ma sentii urla, e oggetti scaraventati contro i muri, e i pianti di mia madre, e la porta d'ingresso che sbattè diverse volte. Da allora zio Alfredo non venne mai più a trovarci, e i nostri Natali diventarono piatti e monotoni come qualsiasi Natale di una qualsiasi famiglia medio-borghese, e non c'era più la sua allegria, la sua aria di esoticità, di novità, il suo bagliore negli occhi a tirarci fuori da quei rituali consolidati, da quella normalità noiosa e così insopportabile al mio animo curioso e avventuriero.
Wednesday, November 7, 2012
Dissi.
Dissi,
guardando
dritto
di
fronte
a
me
mentre
spostavo
automaticamente
i
piedi
– destro
sinistro
destro
sinistro
– senza
accorgermi
minimamente
delle
strade
che
stavo
percorrendo,
dissi,
Per
avere
una
libertà
di
scelta
maggiore,
bisogna
conoscere
a
fondo
le
possibili
varianti;
solo
in
questo
modo
si
può
prendere
una
decisione
consapevole.
Dissi,
Solo
dopo
aver
conosciuto
sia
il
Bene
che
il
Male,
dopo
averli
vissuti
completamente,
dopo
essersi
imbevuti
di
loro
fino
a
trasudarli
da
tutti
i
pori
corporei,
dopo
averli
esplorati
da
cima
a
fondo,
esaminato
ogni
singolo
angolo
buio
dello
scantinato
più
remoto,
solo
dopo
tutto
questo
si
può
dire
con
piena
responsabilità
di
voler
preferire
uno
all'altro.
Dissi,
E
dopo
averli
conosciuti,
bisogna
tenere
a
mente
quello
che
si
è
visto
e
provato,
bisogna
tenerlo
bene
a
mente,
bisogna
puntarselo
con
uno
spillo
nel
bel
mezzo
del
cervello,
in
modo
che
mai,
nemmeno
per
un
istante
della
propria
vita,
ci
sia
anche
solo
il
lontano
rischio
di
dimenticarsi
della
strada
da
dover
percorrere,
perché
altrimenti
sarebbe
il
caos,
il
panico,
e
si
tornerebbe
allo
stato
di
destabilizzazione
e
di
confusione
dal
quale
si
era
partiti.
Dissi,
Bisogna
ricordarsi
delle
conseguenze
di
uno
e
dell'altro,
perché
potrebbero
esserci
momenti
di
debolezza
nei
quali
si
è
tentati
di
trasgredire,
fuorviare
la
legge
che
ci
si
è
imposti,
di
mandare
tutto
al
diavolo
e
fregarsene,
e
ci
si
potrebbe
chiedere
Se
ho
voglia
di
fare
qualcosa,
perché
mai
non
potrei
farlo?
Dissi,
Perché
i
sentimenti
sono
bastardi,
si,
ti
fanno
dimenticare
tutto,
ti
accecano
la
ragione,
arrivano
a
rovinarti
la
vita
(nei
casi
estremi),
ma
bisogna
essere
forti,
meglio
darsi
un
pizzico
sulla
pancia,
soffrire
per
un
minuto
però
dopo
sentirsi
bene,
anzi,
sentirsi
addirittura
soddisfatti
della
propria
forza
e
della
propria
resistenza,
per
aver
resistito
non
solo
a
una
tentazione,
ma
anche
a
un
sentimento,
e
non
è
cosa
da
poco,
non
sempre
la
ragione
riesce
a
dominarli,
sono
così
poco
controllabili,
ma
bisogna
dare
il
meglio
di
sé
se
si
vuole
avere
una
vita
equilibrata
e
serena.
Lui
si
girò
verso
di
me
– anch'egli
stava
camminando
come
me
fissando
dritto
davanti
a
sè,
i
piedi
indipendenti
destro
sinistro
destro
sinistro
che
andavano
in
automatico
– si
fermò,
io
mi
fermai,
mi
guardò,
io
lo
guardai,
e
mi
disse,
a
voce
bassa,
calma,
pacata,
come
parlava
sempre
lui,
disse,
Ma
vaffanculo
tu
e
le
tue
seghe
mentali,
disse,
mi
strinse
forte
a
sé
e
mi
baciò.
(giugno 2011)
Tuesday, November 6, 2012
Tre ore e venti di energia.
L'unico posto dove la frutta costa
ancora un euro al chilo e non tre e cinquanta come al supermercato è
il mercato arabo.
Un euro! C'erano tempi quando con un
euro ci potevi campare per tutto il finesettimana, c'erano tempi che
con un euro - duemila lire! - ci compravi da bere a te e a tutti gli
amici, almeno così dicono, tu preferivi comprarti il gelato, sono
tempi lontani, è vero, tempi che a dire il vero non ricordi neanche
tanto bene, quando hai iniziato a spendere soldi tuoi, risparmiati
faticosamente paghetta dopo paghetta, si, c'era la lira, ma a dire il
vero non ti facevi davvero problemi di quanto dovevi o potevi
spendere, semplicemente lo facevi, e spendevi esattamente quanto
avevi, mica c'era un affitto da pagare o una spesa da fare, a quello
ci pensavano mamma e papà, e quando hai iniziato a capire veramente
il senso dei soldi si parlava già di euro, ora neanche le peggiori
cicchetterie di Bologna ti vendono qualcosa per un euro, al massimo
ci puoi comprare lo spritz tarocco dal Siesta, dove gli scarafaggi
corrono in mezzo alle bottiglie ricoperte di polvere, bottiglie che
una volta contenevano vero Aperol, e che ora i baristi nel
retrobottega riempiono con un imbuto di chissà quale schifezza
comprata dalla Lidl, e invece qui la frutta costa un euro al chilo,
un intero chilo di frutta a solo un euro, al mercato arabo, da non
crederci, eppure è così.
Ti fai strada tra la folla, cercando di non toccare nessuno, per quanto sia praticamente impossibile, cammini stringendo saldamente la borsa sotto il braccio, non girandoti alle solite grida "ehi bella!", cercando di ignorare gli sguardi insistenti dei marocchini, lo sai che con quegli sguardi in questo momento ti stanno spogliando, hanno già deciso che tu sei loro, e non importa se tu non sei d'accordo, per loro non sei altro che un oggetto, da avere, da desiderare, da spogliare, ma tu passa, non ragioniam di loro, direbbe Dante, ma guarda e passa, anzi, non guardare nemmeno, che non sia mai questi pensano che li stai assecondando, passa oltre le bancarelle di frutta secca, e i negozietti che vendono spezie odoranti e colorate in sacchi di juta, e le nere che allattano i figli sui bordi delle strade, coprendosi il seno con uno scialle, e gli occhi grandi e pesantemente truccati delle donne nei burqa, e le zingare con la solita piccola mandria di ragazzini sporchi e scalzi al seguito, ragazzini che giocano e urlano e rispondono ai rimproveri delle madri scalciando in aria come puledri ribelli.
Ti fai strada tra la folla, cercando di non toccare nessuno, per quanto sia praticamente impossibile, cammini stringendo saldamente la borsa sotto il braccio, non girandoti alle solite grida "ehi bella!", cercando di ignorare gli sguardi insistenti dei marocchini, lo sai che con quegli sguardi in questo momento ti stanno spogliando, hanno già deciso che tu sei loro, e non importa se tu non sei d'accordo, per loro non sei altro che un oggetto, da avere, da desiderare, da spogliare, ma tu passa, non ragioniam di loro, direbbe Dante, ma guarda e passa, anzi, non guardare nemmeno, che non sia mai questi pensano che li stai assecondando, passa oltre le bancarelle di frutta secca, e i negozietti che vendono spezie odoranti e colorate in sacchi di juta, e le nere che allattano i figli sui bordi delle strade, coprendosi il seno con uno scialle, e gli occhi grandi e pesantemente truccati delle donne nei burqa, e le zingare con la solita piccola mandria di ragazzini sporchi e scalzi al seguito, ragazzini che giocano e urlano e rispondono ai rimproveri delle madri scalciando in aria come puledri ribelli.
Le bancarelle della frutta e della
verdura sono disposte in due file ordinate al centro della piazzola,
tra le sedie e i tavolini dei "salon du the" dove
pasticcini imbevuti di miele e cosparsi di semi di sesamo giacciono
ammucchiati su vassoi argentati in balia delle mosche e delle dita
sporche dei commessi e dei clienti, tra gli scarti delle macellerie e
delle pescherie lì affianco, ossa di pollo, interiora di pesci,
sangue di maiali appena sgozzati (i camerieri cercano di pulire un
po' buttando secchiate d'acqua, con l'unico risultato di creare
pozzanghere sudicie e maleodoranti), tra i vecchietti minuscoli che
fanno la carità a terra, tra le grida dei fruttivendoli, che sembra
facciano a gara a chi riesce a urlare più complimenti per i prodotti
che vendono - mandarini dolcissimi, pomodori freschissimi, prugne
morbidissime, menta profumatissima. Tu ti fai strada in mezzo a quel
bordello di persone dove tutto - razze, etnie, colori, odori, lingue,
- sembra essere stato mischiato in un enorme frullatore e versato in
un bicchiere alto con una cannuccia, bicchiere dal quale tu bevi,
bevi, bevi fino alla goccia questa bevanda strana, dal gusto esotico
e tuttavia vagamente familiare, bevi fino a quando non l'hai vuotato
tutto, e la cannuccia che aspira aria fa quel tipico rumore
gorgogliante che conosci così bene (quante volte l'hai fatto da
bambina?). Ti fai strada in mezzo alla gente e ti dirigi
automaticamente a una delle bancarelle, la tua preferita, la terza a
sinistra, ormai compri sempre la frutta da questo tunisino, lo
conosci di vista, e, incrociando lo sguardo con lui, gli sorridi; lui
ti fa un cenno con la testa e ti porge qualche bustina di plastica,
lasciando a te il piacere di scegliere la frutta che più desideri,
lasciandoti tutto il tempo che vuoi per scorrere le dita sulle bucce
lisce delle mele, per tastare la morbidezza dei cachi, per ricordarti
se per i melograni è veramente già stagione (possibile che il tempo
scorra così in fretta?) oppure no. Alla fine tendi indietro al
ragazzo i sacchetti da te riempiti – un euro al chilo per le mele,
uno e venti per i cachi e per i melograni – paghi il dovuto e,
lentamente, strisciando di nuovo in mezzo alla calca, ti allontani in
direzione della fermata dell'autobus.
Una volta il tuo ex professore di
biochimica aveva detto a lezione che teoricamente le calorie
contenute in una mela dovrebbero bastare a un essere umano per
correre ininterrottamente per quaranta minuti – se non fosse per i
vari processi succhia-energia, la respirazione in primis, seguita da
digestione e tutte le altre, che riducono notevolmente la carica a
disposizione. Ma in teoria, mangiando un chilo di mele, un chilo di
quelle succosissime mele comprate a solo un euro, e ipotizzando che
ogni mela pesi sui duecento grammi circa, si dovrebbero avere calorie
sufficienti per correre ininterrottamente per duecento minuti. Tre
ore e venti di energia per un euro. Questo pensiero, chissà perché,
ti rallegrò. Sorridesti, e, strizzando gli occhi contro il sole che
lento si calava nel mare e nel farlo si rifletteva, accecante, nelle
finestre delle case di rue La Canebière, salisti sull'autobus.
La cosa più bella.
-->
Facevano l'amore almeno due volte al
giorno, a volte tre, a volte quattro, ma mai meno di due, salvo i
giorni che lei aveva le sue cose, e non si stancavano mai. Lo
facevano con foga, con passione, facendo cigolare rumorosamente la
vecchia rete del letto, facendo cadere a terra lenzuola e vestiti
appallottolati in un unico mucchio, senza curarsi delle grida
impazienti dei vicini, delle mani che bussavano sulla parete per dire
di smetterla, senza curarsi di abbassare la voce, gridavano il
proprio godere al mondo. L'unica cosa della quale si preoccupavano
era quella di abbassare la tapparella e di spegnere la luce – non
perché avessero paura di essere visti (quante volte lo avevano fatto
in luoghi pubblici?), ma perché a entrambi piaceva farlo al buio, ad
occhi chiusi, senza nulla che distraesse da quel movimento ritmico,
da quello scorrere di mani lungo le schiene, da quello affondare le
lingue uno nella bocca dell'altra. Quando chiudevano gli occhi, e il
corpo nudo di lui si sdraiava sopra il corpo nudo di lei, e la voglia
rigida ed eretta di lui trovava la voglia umida e molliccia di lei, e
si ricongiungevano, corpo nel corpo, anima nell'anima, e lui la
penetrava non per violarla, ma per completarla, ecco, quando questo
succedeva, loro chiudevano gli occhi, perché era così che
riuscivano a dimenticarsi di appartenere a questo mondo, e a questa
vita, e a questi dolori. Facevano l'amore, a volte scopavano, ma per
lo più era un fare l'amore, lento, veloce, di nuovo lento, mani che
scorrono, si serrano su natiche contratte, bocche semi aperte, dita
che attraversano capelli arruffati, di nuovo veloce, di nuovo lento,
un po' più su, un po' più giù, Esiste cosa più bella di questa?,
le sussurrava lui nell'orecchio, e lei, tristemente, pensava, No,
purtroppo no. Non esiste nulla di altrettanto alienante, di
altrettanto eccitante, di altrettanto coinvolgente; di altrettanto
bello, insomma. E allora riprendeva a muovere il bacino, a cercare il
ritmo di lui, ad assecondarlo, a imporre un ritmo proprio, ad
abbandonarsi ai sensi, a quella sensazione di leggerezza, come se
stesse volando su una nuvola, una sensazione che neanche le droghe
riuscivano a darle, che nulla, in realtà, riusciva a darle, una
sensazione di felicità, se così si può dire, o perlomeno quello
era ciò che di più le somigliava, e a sperare, sperare che non
finisse mai.
Poi però finiva, per quanto loro
cercassero di allungarlo, per quanto ormai fossero allenati, e
sapessero i tempi uno dell'altra, e facessero del loro meglio per
ritardare l'orgasmo. Finiva, come ogni cosa è destinata a finire a
questo mondo, e loro lo sapevano. Rimanevano abbracciati per un po',
stretti contro il freddo del mondo, ad ascoltare la pioggia battere
sulla finestra, ad accarezzarsi dolcemente, in silenzio, la mente
vuota. Poi, lui si alzava, andava a prendere la carta igienica, si
puliva, la porgeva a lei e si avvicinava alla finestra. Alzava la
tapparella, spalancava la finestra – lei, al tagliente contatto con
la brezza notturna, recuperava la coperta dal pavimento polveroso e
vi si rifugiava sotto – e si rollava una sigaretta.
Monday, November 5, 2012
L'abbraccio di un'ameba.
"Seguimi,"
disse,
prendendomi
per
mano
e
immergendosi
coraggiosamente
nelle
torbide
acque
di
quella
fiumana
umana.
Gente
che
entrava,
gente
che
usciva,
gente
che
rimaneva
saldamente
sul
proprio
posto,
magari
noncurante
di
bloccare
il
passaggio
a
qualcuno
che
doveva
entrare,
a
qualcuno
che
doveva
uscire.
Gente
che
vagava
caoticamente,
senza
nessuna
causa
logica
– o
almeno
così
sembrava
– come
tante
piccole
particelle
di
gas
che
sbattono
tra
di
loro,
rimbalzano
come
palline
da
flipper
e
continuano
il
loro
insensato
movimento
all'infinito.
Eccola,
la
condizione
umana,
pensai,
siamo
un
gas
compresso,
si,
tanti
piccoli
atomi
di
gas
compressi
in
un
ambiente
troppo
piccolo
per
noi,
in
un
ambiente
che
non
rispetta
per
nulla
lo
spazio
vitale
di
ciascuno
di
noi,
un
ambiente
dove
siamo
costretti
a
scontrarci
l'uno
con
l'altro,
magari
tu
quella
persona
lì
non
la
vuoi
proprio
vedere,
ti
sta
sul
cazzo,
e
invece
sei
costretto
a
sbatterci
contro,
prima
o
poi,
magari
invece
non
succederà
mai,
ma
statisticamente
parlando
potrebbe
succedere,
statisticamente
parlando
tutto potrebbe
succedere,
e
allora,
se
non
sei
capace
di
vivere
accettando
(subendo?)
questa
cosa,
vivi
in
perenne
ansia,
di
qualcosa
che
chissà
se
e
quando
accadrà.
Tenevo
salda
la
sua
mano,
per
paura
di
perdermi,
in
quel
posto
fatto
di
corridoi
– in
realtà
sapevo che
era
fatto
di
corridoi,
ma
in
quel
momento
lì
non
si
vedevano,
perché
ogni
singolo
centimetro
quadro
libero
era
occupato
da
una
persona,
ma
la
conoscenza
di
una
cosa
condiziona
la
percezione
di
essa.
Tenevo
salda
la
sua
mano,
mentre
scivolavamo
lungo
muri
altissimi,
mentre
salivamo
scale
ripidissime,
mentre
oltrepassavamo
porte
che
davano
su
altri
corridoi
dai
muri
altissimi
e
altre
scale
ripidissime,
tenevo
salda
la
sua
mano,
per
non
perdermi,
per
non
perderci,
schiacciati
da
una
folla
brulicante,
una
massa
unica,
viva,
incosciente,
come
un'enorme
ameba
informe,
in
grado
di
deformarsi
a
suo
piacere.
Sentivo
la
pressione
di
decine
di
corpi
estranei
sulla
mia
pelle
– braccia,
pance,
schiene,
mani,
seni
strisciavano
su
di
me
senza
ritegno,
senza
permesso,
era
una
sensazione
strana,
come
se
questo
enorme
essere,
questa
ameba,
mi
stesse
abbracciando
(Dio!
Cosa
si
arriva
a
pensare
in
momenti
di
carenza
di
affetto),
mi
stesse
inglobando,
facendomi
sentire
parte
di
qualcosa
in
realtà
a
me
estraneo,
qualcosa
di
cui
non
sapevo
nulla,
un
organismo
composto
da
cellule
sconosciute,
era
strano,
era
piacevole,
ma
faceva
paura,
una
volta
si
sarebbe
detto
che
era
sublime,
è
un
concetto
di
sottomissione,
ed
effettivamente
in
qualche
modo
ero
costretta
a
sottomettermi,
perché
questa
creatura
era
più
forte
di
me,
nonostante
io
contribuissi
con
la
mia
presenza
alla
sua
esistenza
e
alla
sua
potenza
– quindi,
probabilmente,
da
qualche
parte
qualcun
altro
avrà
provato
sensazioni
simili
anche
per
colpa
mia,
si
sarà
sentito
sottomesso
anche da
me,
e
questo
dava
una
sensazione
di
pseudo-potere,
si
può
essere
padroni
e
sudditi
allo
stesso
momento?,
mi
chiedevo,
e
poi
pensavo
che
il
mondo
là
fuori,
oltre
questi
muri
altissimi,
oltre
questi
corridoi
lunghissimi,
era
fatto
esattamente
allo
stesso
modo,
non
cambiava
nulla,
era
solo
infinitamente
più
grande
e
infinitamente
più
incontrollabile.
Poi,
nel
bel
mezzo
delle
mie
riflessioni,
arrivammo
davanti
a
una
porta
con
appesa
la
figura
stilizzata
di
una
donna. "Finalmente,"
pensai.
Due minuti dopo, eravamo già fuori, liberati da pesi inutili. "Andiamo a bere," propose qualcuno. "Andiamo."
(febbraio 2012)
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