Monday, November 26, 2012

Poteva essere Parigi.

Le note della triste canzone del musicista uscivano dal suo trombone arrugginito e venivano portate via dal vento, svolazzanti come i fazzoletti sulle teste delle donne in fila sui gradini della chiesa, già immerse nella loro litania domenicale prim'ancora di sedersi sulle panche di legno, sotto le arcate gotiche e le vetrate a colori della casa di dio. Il musicista, un vecchio immigrato mezzo ubriaco vestito in stracci consumati e sporchi, suonava la nostalgia per il suo lontano paese, ricordando chissà quali bei giorni della sua gioventù ormai andata, e mentre suonava delle lacrime scendevano lentamente dai suoi occhi socchiusi e scivolavano nella folta barba incolta, ma nessuno si accorse di loro, neanche il bimbo che, impietosito, chiese alla madre degli spiccioli e li lanciò nel cappello che il vecchio aveva poggiato sull'asfalto davanti a sé.


Wednesday, November 21, 2012

Emme come Mosca.

Esci dall'aeroporto di Sheremyetevo, il cielo è di un grigio cupo che più cupo non si può. Gli alberi sono spogli, la terra nera, i palazzi sporchi, le macchine ricoperte da una patina nerognola di fango e smog: respiri a pieni polmoni quell'aria inquinata ma così cara alla tua memoria nostalgica, e ti senti bene. Sul tabellone dei treni Aereoexpress che portano in città c'è scritto che la prossima navetta partirà tra pochi minuti, direzione “M. Belorusskij Vokzal”.
Emme, come Mosca.
La navetta è nuova, pulita, i sedili comodi e di un colore rosso acceso, e le porte di vetro scorrevoli si aprono  premendo un bottone luminoso. Tutto è in perfetto stile europeo, come anche l'aeroporto ristrutturato da poco, e dà l'impressione di un luogo piacevolmente sterile. Dai soffitti del treno pendono televisori con schermi a cristalli liquidi, sui quali trasmettono i soliti video senza importanza sui leoni e le gazzelle della savana, che servono solo a distrarre i passeggeri dalle brutte case che scorrono velocemente al di là dei loro finestrini, appena a pochi metri dalle capsule ermetiche dei loro vagoni.



Fuori, sotto queste nuvole di piombo, si stende la città dove sei cresciuta.
La navetta impiega solo mezzora ad arrivare – ti ricordi quando quell'Aeroexpress non era altro che una delle comunissime elektricka che corrono ancora oggi verso la periferia, e ci metteva quasi due ore? – esci dal treno, vieni travolta dalla fiumana di gente – questa è una città che corre, baby, te ne sei dimenticata? – e, siccome non ti ricordi in che direzione andare, ti lasci trasportare fiduciosa dalla folla. Infatti, dopo qualche minuto, eccola, la grande M rossa a zigzag.
Emme, come metro.





Monday, November 12, 2012

Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 4.

(Per la prima parte, clicca QUI)
(Per la seconda parte, clicca QUI)
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(Lei)

Rimanemmo così per un minuto buono, e la situazione, vista dall'esterno, doveva sembrare abbastanza buffa. Nessuno dei due aveva intenzione di parlare, ci bastava guardarci, in silenzio. Poi, sentii una vampata di calore al viso, e abbassai per prima gli occhi, tornando a fissare, senza in realtà vederla, la pagina che fino a poco tempo fa stavo leggendo. Sentivo pulsare forte il sangue nelle orecchie. Cercai di asciugare le mani sudaticce strofinando le pagine del libro tra le dita, nel vano tentativo di calmarmi, di riprendere controllo di me stessa. Mi era capitato altre volte che gli uomini mi fissassero, che andassero cercando il mio sguardo, che si aspettassero che ricambiassi il loro interesse, ma non sono mai stata al gioco, non ho mai risposto a uno di quei tentativi di approccio, ho sempre tenuto la testa fermamente girata nella direzione opposta, le labbra serrate e le sopracciglia alzate in quell'espressione tipica di chi è seriamente scocciato, probabilmente da fuori sarò sembrata una che se la tira, ma la realtà è che ho sempre avuto paura, ho sempre avuto paura di ciò che avrei potuto trovare dietro quegli sguardi famelici, quei sorrisetti ammiccanti, quel pavoneggiarsi così tipicamente maschile. E invece quel giorno, per la prima volta, seduta lì in una poltroncina della Sala Borsa, per la primissima volta ho guardato un uomo senza pudore, desiderandolo e sentendomi desiderata, ed era una sensazione pazzesca, sentivo il cuore fare tumtumtum e la pelle maledetta che arrossisce sempre per un nonnulla, era tutto così nuovo ed emozionante, ma c'era anche una buona dose di panico: e ora, come dovevo comportarmi? In queste occasioni, cosa si dice, cosa si fa?

(Lui)

È stupenda. Non è di quel genere di ragazze che uno definirebbe fighe, però ha una bellezza tutta sua, particolare, affascinante. È alta, ossuta, la pelle tirata sugli zigomi, il viso appuntito, gli occhi che sembrano quasi a mandorla, di un verde bottiglia intenso, i capelli lunghi e lisci, e non riesco a capire se sono davvero rossi o se è la luce che li fa sembrare tali, ma al tatto devono essere morbidi e vellutati, lo so, lo capisco da come si poggiano morbidamente sulle sue spalle, e sulla curva del seno quasi inesistente, è piatta come una tavola, con quel maglioncino nero a girocollo che la cinge perfettamente, quei jeans attillati che le stringono quei due stecchini che sono le sue gambe, e lei in tutto questo è stupenda. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, è stupenda anche ora che è diventata rossa come un gambero, non avrà mica vergogna di me? In effetti non sono nelle mie condizioni migliori, ma non sono neanche così impresentabile, suvvia, ho visto momenti peggiori. No, no, la vedo, la capisco, mi sembra di poter leggere il suo pensiero, e non è per il mio aspetto, è qualcos'altro... È imbarazzata, ecco, si, non sa come comportarsi, ma suvvia, piccola, con me non devi farti di questi problemi, davvero! Sii tranquilla, ecco, vedi, ti sto sorridendo, non sono malvagio, brava, ah!, che stretta al cuore ora che anche tu mi sorridi, sei bellissima, sei stupenda, te l'ha mai detto nessuno che con quel sorriso riusciresti a conquistare il mondo intero? Ma certo, che stupido che sono, certo che te l'avranno detto, e chissà in quanti, poi... Si, lo ammetto, sono geloso, ma mi rendo conto che è da stupidi, quindi cercherò di non esserlo, non lo sarò per te, se non lo vorrai. Mi hai ammaliato, dì la verità, sei una strega, una fattucchiera, dove hai nascosto la bacchetta magica? Sei qualcosa di mai visto, e io non sono uno che vede una donna per la prima volta, ora, non è per vantarmi, ma le mie esperienze le ho fatte, eppure tu sei diversa, tu non sei come tutte, perché con te mi basta guardarti, mi basta guardarti in questi tuoi splendidi occhi verdi e mi sento come se fossi a casa, mi sento sicuro, mi sento completo... Solo uno sguardo, dio mio, ci pensi, solo un tuo sguardo mi ha provocato tutta questa tempesta di emozioni dentro, tu pensa se aprissimo bocca e iniziassimo a parlare, il mio cuore probabilmente non reggerebbe l'emozione, esploderebbe, ricoprendo di schizzi di sangue tutto il primo piano della Sala Borsa, o forse no?, o forse è la magia del silenzio, questa? Se è così allora non voglio interromperlo, voglio mantenere la purezza di questo momento intatto, cristallino, come un diamante, ma non i diamanti tarocchi di piazza Verdi, quelli verdi marroni bianchi, no diamanti veri, tu sei un diamante vero, perché risplendi di luce tua, sei preziosa, sei unica, sei indescrivibile. Non ho mai creduto all'amore a prima vista, davvero, piccola, non ci ho mai creduto, non sono nemmeno certo di aver mai creduto all'amore in generale, ma tu sei capace di cambiare tutte le mie opinioni, tu sei capace di distruggere tutte le mie logiche, di prendere la mia visione del mondo e stravolgerla, metterla sottosopra, rivoltarla come un calzino, e io te lo lascio fare, fai di me e della mia vita quello che vuoi! Basta che continui a guardarmi, tu, esserino splendido venuto da non so quale pianeta, basta che continui a guardarmi, e a sorridermi, e a farmi sognare, ti prego, non andare via, no, resta con me, ti prego, non sopporterei di rimanere solo, di nuovo solo, no, ti prego.

Saturday, November 10, 2012

Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 3.

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(Per la seconda parte, clicca QUI)

(Lei)

Camminai per un po' pensierosa in mezzo agli scaffali delle guide turistiche, degnandoli a malapena di pochi sguardi assenti, passando feci scorrere le punte delle dita sulla fila degli atlanti fotografici dai titoli dorati, e mi fermai davanti al reparto Viaggi. Mi concessi il piacere di tirare fuori qualche libro, rigirarlo tra le mani, sfogliarlo pigramente, leggere quello che c'era scritto sulla copertina di dietro, per poi rimetterlo a posto. Il momento di dover scegliere un nuovo libro da leggere è sempre stato il più entusiasmante per me, come quando hai un budget illimitato e sei di fronte a una cartina geografica, e non devi far altro che puntare il dito e dire Io andrò qui, e la mente già si eccita al pensiero di chissà cosa troverò, chissà cosa scoprirò, chissà quali sorprese mi riserverà la sorte. È il momento nel quale l'immaginazione è libera di pensare qualsiasi cosa, soprattutto se ci si ritrova davanti a qualcosa di completamente ignoto, qualcosa di cui non abbiamo assolutamente nessuna informazione, nessuna recensione, nessun commento, nulla. L'immaginazione allora è come un animale in libertà, che corre, corre, corre, fino a sfiancarsi, fino a cadere esausto sull'erba, ed è lì che finalmente apri la prima pagina del libro che hai scelto e incominci un nuovo viaggio. Valutai le varie opzioni che mi avevano incuriosita di più e alla fine presi un libro spesso, dalla copertina viola, con un inserto di fotografie a colori nel mezzo: “La leggenda delle montagne naviganti”, di Paolo Rumiz. Contenta della mia scelta, uscii dal reparto e mi diressi verso una delle poltroncine libere in corridoio. Il vantaggio di andare in Sala Borsa di sabato a quell'ora era che non c'era quasi nessuno, e non si aveva mai problema a trovare un posto dove accoccolarsi e leggere per il resto della giornata. Tuttavia, notai che un po' più in là, su una poltroncina identica alla mia, c'era un ragazzo seduto con lo sguardo fisso su un punto e lì per lì pensai che mi stesse osservando. Quando però mi girai di nuovo a guardarlo, era intento a studiare attentamente il pavimento. Cercai di liberare la mente e mi concentrai sulla prima pagina del libro. La carta al tatto era spessa e ruvida, come piace a me. Prometteva bene.

(Lui)

Chissà da quant'è che sto seduto qua, su questa poltrona così morbida, ti predispone proprio al pensiero, anche il luogo, con tutti questi libri polverosi che sembra che assorbano i rumori con le loro pagine, fanno sembrare tutti i suoni ovattati, come se provenissero da una stanza chiusa, o è solo colpa della stanchezza e dell'erba? Prima di venire a sedermi qua ho fatto un giretto per i vari piani, e questo mi è sembrato il posto più tranquillo, infatti quando sono arrivato non c'era nessuno, io ero l'unico, e mi piace il silenzio che c'è qua. Non che mi serva per leggere, infatti non ho preso nulla dagli scaffali, anche se mi sono fermato a dare un'occhiata ai giornali, per vedere se è successo qualcosa di nuovo in questo mondo, ma tanto, che vuoi che succeda? Gira e rigira le notizie son sempre quelle, o forse sono solo quelle che arrivano a noi che sono sempre le stesse, boh. Mi sarebbe piaciuto fare il reporter, mi sarebbe piaciuto andare in giro per il mondo a vedere cosa succede davvero nei vari Paesi i nomi dei quali sentiamo in continuazione alla tivù – e l'Iraq, e la Palestina, e la Corea, e la Libia – e che però non abbiamo neanche la più pallida idea di come siano fatti. Già, mi sarebbe piaciuto tanto, e l'avrei fatto con passione, però il lavoro da reporter è uno di quei lavori che non sai da dove cominciare, voglio dire, uno come fa a diventare un reporter? Io sto studiando Lettere, la laurea ancora non ce l'ho, ma tanto dubito che serva poi così tanto come vogliono farci credere, stupido pezzo di carta pieno di firme svolazzanti e di timbri, e non penso proprio che mi potrebbe servire per diventare un reporter.
Ero venuto qua quando ancora non c'era nessuno, e infatti ero l'unico fino a pochi secondi fa, perché ora si è venuta a sedere una ragazza, a pochi metri da me, e guarda caso io me ne stavo immobile con lo sguardo perso proprio sul punto dove si è seduta lei, così dopo qualche istante sono stato costretto a distogliere gli occhi, perché avrebbe potuto pensare che la stessi fissando, e alla gente non piace essere fissata, anche se non la stavo fissando, anzi, non l'ho nemmeno vista per bene, avete presente quando rilassate gli occhi e non mettete nulla a fuoco? Ecco, è così che vedono il mondo i miopi, io lo so perché porto gli occhiali, mi mancano tre gradi all'occhio destro e tre e mezzo al sinistro. Essere miopi è una gran rottura di palle, perché se usi le lenti a contatto devi sempre ricordarti di portartele appresso insieme al liquido e al contenitore, e se porti gli occhiali quando piove o nevica non ci vedi una minchia.

Friday, November 9, 2012

Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 2.

(Per la prima parte, clicca QUI)

(Lui)

Converse nere bucate calpestano cocci di vetro crunch crunch questo rumore mi ricorda la mandibola di un cavallo che si chiude sopra una mela o una carota, i vetri sono verdi marroni e bianchi e sbrilluccicano alla luce dei lampioni come tanti piccoli diamanti, sembrano preziosi e romantici, sembrano stelle su un firmamento d'asfalto, e invece sono dei banalissimi pezzettini di vetro, ma d'altronde, di notte, che differenza fa?
Converse nere bucate camminano sui cocci di vetro – non perché lo vogliono, ma perché in Piazza Verdi dopo una certa ora è inevitabile – e attraversano lo spazio in direzione di un gruppetto di persone sedute a terra. Verranno i tempi quando Piazza Verdi verrà circondata di pattuglie della Polizia e dei Carabinieri, per “ripulirla”, diranno loro, per “evitare il bivaccamento”, diranno, per “limitare lo spaccio e gli schiamazzi”. Verranno i tempi quando saranno messi dei tavoli e delle panche, protetti dai veicoli della strada da delle siepi, e camerieri col grembiule nero serviranno pesce e vino e formaggi freschi. Verranno i tempi quando gli sbirri ti chiederanno – a volte gentilmente, a volte tirandoti su bruscamente per il braccio, a volte agitando minacciosamente il manganello – di alzarti da terra ogniqualvolta che, preso dall'abitudine e dalla nostalgia, cercherai di riformare il solito cerchio con gli amici nell'unico spazio libero dai tavoli, in quei pochi metri quadri davanti al Piccolo, cercherai di ripetere in quell'umile gesto di sedersi a terra un debole tentativo di appello alla libertà e alla democrazia, perché in Piazza Verdi tutti sono liberi, e tutti sono uguali – dai pankabbestia coi cani alle ragazze in minigonna – e tutti, in Piazza Verdi, si siedono per terra. Eppure verranno a chiederti di alzarti, perché, sai, non è consentito, non più, ora servono per forza le sedie, o, se proprio vuoi, vatti a stravaccare da qualche altra parte. Verranno quei tempi, come erano già venuti in piazza Santo Stefano, e in un certo senso anche in piazza San Francesco – recintarono la chiesa dopo il terremoto, per motivi di sicurezza, dicevano, ma c'era qualcosa che non ci tornava, – verranno, ma non allora, non quella sera, e neanche quella dopo, e neanche quella dopo ancora, il ché, per noi, era già una buona prospettiva.
Converse nere bucate si spostano sui cocci di vetro attraverso la piazza in mezzo a decine di altre Converse nere – rosse gialle viola blu – bucate – a volte no – per arrivare da quel mucchietto di persone che sono i miei amici, seduti, ovviamente, a terra, sui sanpietrini rossi. Il mio avvicinamento grazie alla folla passa inosservato, così quando arrivo a loro giusto in quel momento c'è Max che fa Cicileo!, e io che ancora non ho fatto un solo tiro in tutta la serata e quindi sono il più lucido di tutti rispondo per primo Ieo!, facendo saltare tutti quanti dalla sorpresa, mi siedo in un buco libero infilandomi tra Grazia e Mary e sfilo la giolla dalle dita di Max. Bastardo, mi dice sorridendo Leo, la chitarra come sempre in mano, le dita che accarezzano le corde come se fosse una donna, e attacca a suonare una delle solite canzoni che si suonano qua, una di quelle con due o tre accordi al massimo, che conoscono tutti, e che tutti possono cantare anche da ubriachi. Dai, ho portato qualche birra, dico io togliendomi dalle spalle lo zaino che tintinna allegramente. Grande, passa qua, di nuovo la Peroni?, ma che schifo, vabbè, in mancanza d'altro.

Thursday, November 8, 2012

Un'ipotetica Lei, un ipotetico Lui_parte 1.


(Lei)

Girai a Nord, poi ad Est, poi di nuovo a Nord, ed uscii su Piazza Maggiore. Quella di ragionare come se fossi un boy scout con una bussola nel mezzo di una foresta era una cosa che mi aveva insegnato zio Alfredo, il fratello di mio padre, quando io ero ancora una bambina: la destra e la sinistra sono delle cose troppo soggettive, diceva, ciò che è per me la destra per te che mi stai di fronte è la sinistra, e viceversa, meglio affidarsi ai quattro punti cardinali, diceva, che almeno quelli stan sempre fermi lì, non si muovono, e ciò che è Nord per me lo è anche per te, lo deve essere per forza. Io rimanevo sempre ammaliata da ciò che mi diceva zio Alfredo, e cercavo di seguire i suoi consigli alla lettera. Era una figura strana nella nostra famiglia, sapevo che a mio padre lui non andava molto a genio, ma non capivo bene il perché. Veniva a trovarci raramente, il più delle volte solo per le feste di Natale, ma ogni volta che veniva aveva sempre una storia nuova da raccontare; infatti, zio Alfredo era un gran viaggiatore. Ho passato quasi tutti i miei Natali ad andargli dietro, a seguirlo per tutta la casa come un segugio e a pregarlo di raccontarmi qualcosa, finché lui, ridendo, non si arrendeva, si accomodava sul divano davanti al camino, mi faceva sedere sulle sue ginocchia e mi parlava, per ore, di terre lontane, di persone in vestiti colorati, di animali feroci che abitano in giungle mai toccate da piede umano, di cibi dai sapori indescrivibili (dolci ma amari, salati ma insipidi, teneri ma croccanti), e io rimanevo a bocca aperta e gli occhi spalancati a cercare di immaginarmi tutto ciò, e la notte mi giravo e rigiravo nel letto, senza riuscire a prendere sonno, pensando a come sarebbe bello poter seguire lo zio in uno dei suoi viaggi, e allora il giorno dopo mi facevo coraggio e glielo andavo a chiedere, e lui, ogni volta, scoppiava a ridere, ma non era una risata offensiva, deridente, no, era più una risata triste, e mi rispondeva semplicemente Non è possibile piccola, e io sapevo che non era una cosa che dipendeva da lui, che se avesse potuto mi avrebbe portata con sé, glielo leggevo negli occhi, in quegli occhi chiari e sinceri, così teneri, così diversi dagli occhi neri e severi di mio padre, e se proprio non si poteva fare ci doveva essere un motivo importante, anche se non sono mai riuscita a trovare le forze per chiederglielo, qual era, questo motivo. Così, mi accontentavo di ascoltare i suoi racconti, le sue avventure, e avrei potuto farlo ininterrottamente, per giorni, e probabilmente anche lo zio Alfredo avrebbe potuto parlare per tutto il tempo che avevamo a disposizione, se non fosse per mia madre che veniva a interromperci ogni volta, mi rimproverava per essere così assillante, mi diceva che dovevo lasciare stare in pace lo zio, che era venuto qui per riposarsi, mica per fare il cantastorie, anzi, Alfredo, vieni di là con me, vieni a riposarti un po' con me, Maurizio è uscito e non tornerà prima di stasera, ti va di farmi compagnia? Così, mentre mia madre, chiudendo dietro di sé la porta, guidava lo zio in direzione della camera da letto, tenendolo per un braccio e ridendo istericamente come una ragazzina, io rimanevo da sola nella grande sala, seduta sul finto tappeto persiano davanti a un fuoco scoppiettante, e vedendo in quelle lingue danzanti i personaggi dei racconti di mio zio.
Poi, un giorno, mio padre tornò prima del previsto. Ci fu un gran baccano quella sera, a me fu proibito di uscire dalla cameretta, ma sentii urla, e oggetti scaraventati contro i muri, e i pianti di mia madre, e la porta d'ingresso che sbattè diverse volte. Da allora zio Alfredo non venne mai più a trovarci, e i nostri Natali diventarono piatti e monotoni come qualsiasi Natale di una qualsiasi famiglia medio-borghese, e non c'era più la sua allegria, la sua aria di esoticità, di novità, il suo bagliore negli occhi a tirarci fuori da quei rituali consolidati, da quella normalità noiosa e così insopportabile al mio animo curioso e avventuriero.

Wednesday, November 7, 2012

Dissi.


Dissi, guardando dritto di fronte a me mentre spostavo automaticamente i piedidestro sinistro destro sinistrosenza accorgermi minimamente delle strade che stavo percorrendo, dissi, Per avere una libertà di scelta maggiore, bisogna conoscere a fondo le possibili varianti; solo in questo modo si può prendere una decisione consapevole. Dissi, Solo dopo aver conosciuto sia il Bene che il Male, dopo averli vissuti completamente, dopo essersi imbevuti di loro fino a trasudarli da tutti i pori corporei, dopo averli esplorati da cima a fondo, esaminato ogni singolo angolo buio dello scantinato più remoto, solo dopo tutto questo si può dire con piena responsabilità di voler preferire uno all'altro. Dissi, E dopo averli conosciuti, bisogna tenere a mente quello che si è visto e provato, bisogna tenerlo bene a mente, bisogna puntarselo con uno spillo nel bel mezzo del cervello, in modo che mai, nemmeno per un istante della propria vita, ci sia anche solo il lontano rischio di dimenticarsi della strada da dover percorrere, perché altrimenti sarebbe il caos, il panico, e si tornerebbe allo stato di destabilizzazione e di confusione dal quale si era partiti. Dissi, Bisogna ricordarsi delle conseguenze di uno e dell'altro, perché potrebbero esserci momenti di debolezza nei quali si è tentati di trasgredire, fuorviare la legge che ci si è imposti, di mandare tutto al diavolo e fregarsene, e ci si potrebbe chiedere Se ho voglia di fare qualcosa, perché mai non potrei farlo? Dissi, Perché i sentimenti sono bastardi, si, ti fanno dimenticare tutto, ti accecano la ragione, arrivano a rovinarti la vita (nei casi estremi), ma bisogna essere forti, meglio darsi un pizzico sulla pancia, soffrire per un minuto però dopo sentirsi bene, anzi, sentirsi addirittura soddisfatti della propria forza e della propria resistenza, per aver resistito non solo a una tentazione, ma anche a un sentimento, e non è cosa da poco, non sempre la ragione riesce a dominarli, sono così poco controllabili, ma bisogna dare il meglio di se si vuole avere una vita equilibrata e serena. Lui si girò verso di meanch'egli stava camminando come me fissando dritto davanti a sè, i piedi indipendenti destro sinistro destro sinistro che andavano in automaticosi fermò, io mi fermai, mi guardò, io lo guardai, e mi disse, a voce bassa, calma, pacata, come parlava sempre lui, disse, Ma vaffanculo tu e le tue seghe mentali, disse, mi strinse forte a e mi baciò.

(giugno 2011)

Tuesday, November 6, 2012

Tre ore e venti di energia.


L'unico posto dove la frutta costa ancora un euro al chilo e non tre e cinquanta come al supermercato è il mercato arabo.
Un euro! C'erano tempi quando con un euro ci potevi campare per tutto il finesettimana, c'erano tempi che con un euro - duemila lire! - ci compravi da bere a te e a tutti gli amici, almeno così dicono, tu preferivi comprarti il gelato, sono tempi lontani, è vero, tempi che a dire il vero non ricordi neanche tanto bene, quando hai iniziato a spendere soldi tuoi, risparmiati faticosamente paghetta dopo paghetta, si, c'era la lira, ma a dire il vero non ti facevi davvero problemi di quanto dovevi o potevi spendere, semplicemente lo facevi, e spendevi esattamente quanto avevi, mica c'era un affitto da pagare o una spesa da fare, a quello ci pensavano mamma e papà, e quando hai iniziato a capire veramente il senso dei soldi si parlava già di euro, ora neanche le peggiori cicchetterie di Bologna ti vendono qualcosa per un euro, al massimo ci puoi comprare lo spritz tarocco dal Siesta, dove gli scarafaggi corrono in mezzo alle bottiglie ricoperte di polvere, bottiglie che una volta contenevano vero Aperol, e che ora i baristi nel retrobottega riempiono con un imbuto di chissà quale schifezza comprata dalla Lidl, e invece qui la frutta costa un euro al chilo, un intero chilo di frutta a solo un euro, al mercato arabo, da non crederci, eppure è così.





Ti fai strada tra la folla, cercando di non toccare nessuno, per quanto sia praticamente impossibile, cammini stringendo saldamente la borsa sotto il braccio, non girandoti alle solite grida "ehi bella!", cercando di ignorare gli sguardi insistenti dei marocchini, lo sai che con quegli sguardi in questo momento ti stanno spogliando, hanno già deciso che tu sei loro, e non importa se tu non sei d'accordo, per loro non sei altro che un oggetto, da avere, da desiderare, da spogliare, ma tu passa, non ragioniam di loro, direbbe Dante, ma guarda e passa, anzi, non guardare nemmeno, che non sia mai questi pensano che li stai assecondando, passa oltre le bancarelle di frutta secca, e i negozietti che vendono spezie odoranti e colorate in sacchi di juta, e le nere che allattano i figli sui bordi delle strade, coprendosi il seno con uno scialle, e gli occhi grandi e pesantemente truccati delle donne nei burqa, e le zingare con la solita piccola mandria di ragazzini sporchi e scalzi al seguito, ragazzini che giocano e urlano e rispondono ai rimproveri delle madri scalciando in aria come puledri ribelli.
Le bancarelle della frutta e della verdura sono disposte in due file ordinate al centro della piazzola, tra le sedie e i tavolini dei "salon du the" dove pasticcini imbevuti di miele e cosparsi di semi di sesamo giacciono ammucchiati su vassoi argentati in balia delle mosche e delle dita sporche dei commessi e dei clienti, tra gli scarti delle macellerie e delle pescherie lì affianco, ossa di pollo, interiora di pesci, sangue di maiali appena sgozzati (i camerieri cercano di pulire un po' buttando secchiate d'acqua, con l'unico risultato di creare pozzanghere sudicie e maleodoranti), tra i vecchietti minuscoli che fanno la carità a terra, tra le grida dei fruttivendoli, che sembra facciano a gara a chi riesce a urlare più complimenti per i prodotti che vendono - mandarini dolcissimi, pomodori freschissimi, prugne morbidissime, menta profumatissima. Tu ti fai strada in mezzo a quel bordello di persone dove tutto - razze, etnie, colori, odori, lingue, - sembra essere stato mischiato in un enorme frullatore e versato in un bicchiere alto con una cannuccia, bicchiere dal quale tu bevi, bevi, bevi fino alla goccia questa bevanda strana, dal gusto esotico e tuttavia vagamente familiare, bevi fino a quando non l'hai vuotato tutto, e la cannuccia che aspira aria fa quel tipico rumore gorgogliante che conosci così bene (quante volte l'hai fatto da bambina?). Ti fai strada in mezzo alla gente e ti dirigi automaticamente a una delle bancarelle, la tua preferita, la terza a sinistra, ormai compri sempre la frutta da questo tunisino, lo conosci di vista, e, incrociando lo sguardo con lui, gli sorridi; lui ti fa un cenno con la testa e ti porge qualche bustina di plastica, lasciando a te il piacere di scegliere la frutta che più desideri, lasciandoti tutto il tempo che vuoi per scorrere le dita sulle bucce lisce delle mele, per tastare la morbidezza dei cachi, per ricordarti se per i melograni è veramente già stagione (possibile che il tempo scorra così in fretta?) oppure no. Alla fine tendi indietro al ragazzo i sacchetti da te riempiti – un euro al chilo per le mele, uno e venti per i cachi e per i melograni – paghi il dovuto e, lentamente, strisciando di nuovo in mezzo alla calca, ti allontani in direzione della fermata dell'autobus.
 






Una volta il tuo ex professore di biochimica aveva detto a lezione che teoricamente le calorie contenute in una mela dovrebbero bastare a un essere umano per correre ininterrottamente per quaranta minuti – se non fosse per i vari processi succhia-energia, la respirazione in primis, seguita da digestione e tutte le altre, che riducono notevolmente la carica a disposizione. Ma in teoria, mangiando un chilo di mele, un chilo di quelle succosissime mele comprate a solo un euro, e ipotizzando che ogni mela pesi sui duecento grammi circa, si dovrebbero avere calorie sufficienti per correre ininterrottamente per duecento minuti. Tre ore e venti di energia per un euro. Questo pensiero, chissà perché, ti rallegrò. Sorridesti, e, strizzando gli occhi contro il sole che lento si calava nel mare e nel farlo si rifletteva, accecante, nelle finestre delle case di rue La Canebière, salisti sull'autobus.

La cosa più bella.


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Facevano l'amore almeno due volte al giorno, a volte tre, a volte quattro, ma mai meno di due, salvo i giorni che lei aveva le sue cose, e non si stancavano mai. Lo facevano con foga, con passione, facendo cigolare rumorosamente la vecchia rete del letto, facendo cadere a terra lenzuola e vestiti appallottolati in un unico mucchio, senza curarsi delle grida impazienti dei vicini, delle mani che bussavano sulla parete per dire di smetterla, senza curarsi di abbassare la voce, gridavano il proprio godere al mondo. L'unica cosa della quale si preoccupavano era quella di abbassare la tapparella e di spegnere la luce – non perché avessero paura di essere visti (quante volte lo avevano fatto in luoghi pubblici?), ma perché a entrambi piaceva farlo al buio, ad occhi chiusi, senza nulla che distraesse da quel movimento ritmico, da quello scorrere di mani lungo le schiene, da quello affondare le lingue uno nella bocca dell'altra. Quando chiudevano gli occhi, e il corpo nudo di lui si sdraiava sopra il corpo nudo di lei, e la voglia rigida ed eretta di lui trovava la voglia umida e molliccia di lei, e si ricongiungevano, corpo nel corpo, anima nell'anima, e lui la penetrava non per violarla, ma per completarla, ecco, quando questo succedeva, loro chiudevano gli occhi, perché era così che riuscivano a dimenticarsi di appartenere a questo mondo, e a questa vita, e a questi dolori. Facevano l'amore, a volte scopavano, ma per lo più era un fare l'amore, lento, veloce, di nuovo lento, mani che scorrono, si serrano su natiche contratte, bocche semi aperte, dita che attraversano capelli arruffati, di nuovo veloce, di nuovo lento, un po' più su, un po' più giù, Esiste cosa più bella di questa?, le sussurrava lui nell'orecchio, e lei, tristemente, pensava, No, purtroppo no. Non esiste nulla di altrettanto alienante, di altrettanto eccitante, di altrettanto coinvolgente; di altrettanto bello, insomma. E allora riprendeva a muovere il bacino, a cercare il ritmo di lui, ad assecondarlo, a imporre un ritmo proprio, ad abbandonarsi ai sensi, a quella sensazione di leggerezza, come se stesse volando su una nuvola, una sensazione che neanche le droghe riuscivano a darle, che nulla, in realtà, riusciva a darle, una sensazione di felicità, se così si può dire, o perlomeno quello era ciò che di più le somigliava, e a sperare, sperare che non finisse mai.
Poi però finiva, per quanto loro cercassero di allungarlo, per quanto ormai fossero allenati, e sapessero i tempi uno dell'altra, e facessero del loro meglio per ritardare l'orgasmo. Finiva, come ogni cosa è destinata a finire a questo mondo, e loro lo sapevano. Rimanevano abbracciati per un po', stretti contro il freddo del mondo, ad ascoltare la pioggia battere sulla finestra, ad accarezzarsi dolcemente, in silenzio, la mente vuota. Poi, lui si alzava, andava a prendere la carta igienica, si puliva, la porgeva a lei e si avvicinava alla finestra. Alzava la tapparella, spalancava la finestra – lei, al tagliente contatto con la brezza notturna, recuperava la coperta dal pavimento polveroso e vi si rifugiava sotto – e si rollava una sigaretta.

Monday, November 5, 2012

L'abbraccio di un'ameba.


"Seguimi," disse, prendendomi per mano e immergendosi coraggiosamente nelle torbide acque di quella fiumana umana. Gente che entrava, gente che usciva, gente che rimaneva saldamente sul proprio posto, magari noncurante di bloccare il passaggio a qualcuno che doveva entrare, a qualcuno che doveva uscire. Gente che vagava caoticamente, senza nessuna causa logicao almeno così sembravacome tante piccole particelle di gas che sbattono tra di loro, rimbalzano come palline da flipper e continuano il loro insensato movimento all'infinito. Eccola, la condizione umana, pensai, siamo un gas compresso, si, tanti piccoli atomi di gas compressi in un ambiente troppo piccolo per noi, in un ambiente che non rispetta per nulla lo spazio vitale di ciascuno di noi, un ambiente dove siamo costretti a scontrarci l'uno con l'altro, magari tu quella persona non la vuoi proprio vedere, ti sta sul cazzo, e invece sei costretto a sbatterci contro, prima o poi, magari invece non succederà mai, ma statisticamente parlando potrebbe succedere, statisticamente parlando tutto potrebbe succedere, e allora, se non sei capace di vivere accettando (subendo?) questa cosa, vivi in perenne ansia, di qualcosa che chissà se e quando accadrà.
Tenevo salda la sua mano, per paura di perdermi, in quel posto fatto di corridoiin realtà sapevo che era fatto di corridoi, ma in quel momento non si vedevano, perché ogni singolo centimetro quadro libero era occupato da una persona, ma la conoscenza di una cosa condiziona la percezione di essa. Tenevo salda la sua mano, mentre scivolavamo lungo muri altissimi, mentre salivamo scale ripidissime, mentre oltrepassavamo porte che davano su altri corridoi dai muri altissimi e altre scale ripidissime, tenevo salda la sua mano, per non perdermi, per non perderci, schiacciati da una folla brulicante, una massa unica, viva, incosciente, come un'enorme ameba informe, in grado di deformarsi a suo piacere. Sentivo la pressione di decine di corpi estranei sulla mia pellebraccia, pance, schiene, mani, seni strisciavano su di me senza ritegno, senza permesso, era una sensazione strana, come se questo enorme essere, questa ameba, mi stesse abbracciando (Dio! Cosa si arriva a pensare in momenti di carenza di affetto), mi stesse inglobando, facendomi sentire parte di qualcosa in realtà a me estraneo, qualcosa di cui non sapevo nulla, un organismo composto da cellule sconosciute, era strano, era piacevole, ma faceva paura, una volta si sarebbe detto che era sublime, è un concetto di sottomissione, ed effettivamente in qualche modo ero costretta a sottomettermi, perché questa creatura era più forte di me, nonostante io contribuissi con la mia presenza alla sua esistenza e alla sua potenzaquindi, probabilmente, da qualche parte qualcun altro avrà provato sensazioni simili anche per colpa mia, si sarà sentito sottomesso anche da me, e questo dava una sensazione di pseudo-potere, si può essere padroni e sudditi allo stesso momento?, mi chiedevo, e poi pensavo che il mondo fuori, oltre questi muri altissimi, oltre questi corridoi lunghissimi, era fatto esattamente allo stesso modo, non cambiava nulla, era solo infinitamente più grande e infinitamente più incontrollabile.
Poi, nel bel mezzo delle mie riflessioni, arrivammo davanti a una porta con appesa la figura stilizzata di una donna. "Finalmente," pensai.
Due minuti dopo, eravamo già fuori, liberati da pesi inutili. "Andiamo a bere," propose qualcuno. "Andiamo."

(febbraio 2012)