Wednesday, December 25, 2013

E' solo un pretesto.

Non c'è niente da fare. Prima o poi, volente o nolente, arriva quel momento quando ti accorgi che, dopotutto, il Natale non è poi così magico come ci vogliono far credere le pubblicità dei panettoni. Per qualcuno questo momento arriva quando si scopre che sotto il costume di Babbo Natale c'è il vicino di casa, per qualcun altro quando si passa la vigilia in punizione perché la mamma ha trovato un pacchetto di Camel nella tasca posteriore dei jeans, per qualcun altro ancora quando la fidanzata si sbaglia e manda per sms gli auguri che erano destinati all'amante. E allora ti chiedi che senso abbia questa stupida festa, che bisogno ci sia nello spendere tutti quei soldi in regali, e nel comprare tutti quei bruttissimi angioletti da appendere all'albero che non fa altro che dare fastidio occupando mezzo salotto, e nel pretendere pateticamente di essere felici, solo perché è Natale, e si sa, a Natale tutti sono gioiosi e sorridenti e ricoperti di brillantini. Ti chiedi che bisogno ci sia nel creare nei bambini un'illusione per la quale loro poi soffriranno, quando si faranno le stesse domande che ti stai ponendo tu adesso, che bisogno ci sia di festeggiare una festa religiosa anche se sei ateo, che bisogno ci sia nel ricreare un'atmosfera da perfetta baita finlandese, con tanto di neve artificiale spruzzata con la bomboletta sulla ghirlanda di pigne e bacche di plastica appesa alla porta, se Gesù bambino nacque in un'afosa grotta israeliana.
Poi però, arriva una sera, in uno dei giorni di vacanza, quando fuori tira un vento gelido, e nel caminetto la legna brucia scoppiettando. Quella sera, qualcuno spegne finalmente la tivù, qualcun altro tira fuori la tombola, e qualcun altro ancora spezzetta le bucce di mandarino per usarle per coprire i numeri. Vi riunite tutti attorno al tavolo della cucina, il nonno come al solito a capotavola con il tombolone, iniziano a tintinnare i portamonete, un euro per sei cartelle, io ho solo monete da due euro, qualcuno ha dei pezzi da cinquanta centesimi? I bambini gridano, impazienti di giocare, finalmente si inizia, e c'è sempre qualcuno che si crede originale gridando "Ambo!" già dopo il primo numero. Arriva quella sera, e mentre i numeri si susseguono, in ordine casuale, come si susseguono, in fondo, gli eventi della nostra vita, tu guardi tua nonna, seduta di fronte, sorridere radiosa, non perché obbligata da un fantomatico spirito natalizio, ma perché finalmente, per una volta l'anno, tutta la famiglia, tutto ciò per cui ha sacrificato le sue forze, la sua bellezza, le sue ambizioni, dedicandosi amorosamente a quella prole spesso così ingrata e insensibile, si è riunita attorno a lei. Per una volta l'anno, hanno presi tutto chi un treno, chi un aereo, chi una macchina, e sono venuti ad affollare la stretta cucina di quella casa solitaria, tutti insieme, come nei suoi sogni. La guardi gioire, gli occhi lucidi, la pelle raggrinzita, i capelli bianchi tinti ostinatamente di marrone, e pensi in fondo che se il Natale fa sorridere tua nonna, allora lasciamo che esista, lasciamoci illudere, lasciamo che ci imbottiscano di pubblicità con i bambini che cantano, e lasciamo che ci convincano a comprare regali e angioletti e alberi di Natale, perché, a volte, le cose sono solo un pretesto, e dietro al paravento delle apparenze si nascondono emozioni e sensazioni che a volte non si hanno semplicemente le forze o il coraggio di esprimere.
Il team di Creazina augura un Buon Natale a voi e a tutti i vostri amati ai quali non sapete proprio come dire quanto ci tenete.
(Natale 2012, scritto per www.creazina.it)

Sunday, October 6, 2013

Poesie alla spina: dall'altro lato del bancone.

La vita artistica è fatta di alti e bassi, si sa, ed è per questo motivo che negli ultimi mesi non mi sono fatta molto viva su queste pagine. In compenso, sono riuscita (grazie all'ispirazione e al supporto di alcune persone, mi è doveroso precisare) a raggruppare qualche poesiola insieme in un unico libricino che ho intitolato "Poesie alla spina: dall'altro lato del bancone". Nulla di particolare, eh, però a me tenerlo in mano fa piacere: è, infatti, una raccolta di tanti miei piccoli momenti di vita, dietro ognuno dei quali c'è una storia che andrebbe raccontata, e che forse un giorno, chissà, racconterò. Ma non qui, non ora.
Insomma, per farla breve: il libricino è scaricabile/sfogliabile QUI. Se vi piace fatemi un fischio.
Peace.

Friday, June 7, 2013

Il geranio.


Per la disperazione
abbiamo pianto
i nostri padri
sulle tombe ammuffite
di grigi cimiteri di campagna;
per la disperazione
abbiamo stretto la mano
ai nostri figli
nei letti di dogliosi ospedali
e abbiamo pregato,
e abbiamo aspettato.
Ma nulla, nulla è successo.
Forse, solo,
il geranio si è ammosciato:
andrebbe innaffiato un po' di più.

Thursday, May 16, 2013

Provate a farvi piacere Terni.

Troppo facile farsi piacere Roma. Troppo facile trovare qualcosa da vedere a Firenze. Provate invece a farvi un giro a Terni.
Il sito del comune di Terni mi comunicò che le principali attrattive della zona erano solamente tre, e che tutte e tre si trovavano fuori dalle mura della città: le cascate delle Marmore, gli scavi archeologici della Carsulae e la chiesa di San Valentino, patrono di Terni. Valutai le distanze e il tempo a mia disposizione, inforcai la bici e mi avviai in direzione della chiesa.
Il sole batteva forte, l'aria era calda e pesante, le strade in salita, e la bici scricchiolava minacciosamente: il viale che stavo seguendo presto si trasformò in una stradina di campagna circondata da villette, orti e prati pieni di papaveri rossi. Per quella che è la dimora del santo più famoso al mondo, neanche un cartello, neanche un'indicazione.
Sbagliai strada, e fui costretta a tornare indietro; alla fine, smisi di dar retta alla mappa del cellulare e mi affidai all'istinto. Vagai un po' a caso, ma alla fine arrivai di fronte a un ponte sospeso sopra una strada, e il posto era troppo poetico per non essere che quello che andavo cercando.
Trovai la basilica di San Valentino tinta di un pallido rosa e avvolta da una nube di polline svolazzante; di fronte, dal cortile di un edificio verde pistacchio, provenivano grida e risate di bambini che giocavano. Affianco all'entrata nella chiesa, c'era una porta con due targhette: "Università di Perugia - Facoltà di Economia" e "Università di Perugia - Facoltà di Scienze Politiche". La cosa mi fece sorridere.



L'interno della chiesa era piuttosto spoglio. Non un fedele a mormorare una preghiera, non un turista ad osservare gli affreschi, non una suora a spolverare le madonne. D'altronde, era quasi ora di pranzo.
Sull'altare, in una teca di vetro troppo piccola, giaceva la statua del santo - dico troppo piccola, perché non solo sembrava un nano, ma aveva pure le ginocchia piegate. Da lontano sembrava un corpo vero, ma avvicinandomi capii che era solo l'effetto della luce. Sopra ci avevano poggiato una tavola di marmo, l'avevano coperta con una tovaglia bianca e ci avevano poggiato fiori, candelabri e libri di preghiere, trasformando la teca in un comodo e utilissimo tavolino.



La sapete la storia di San Valentino? Era uno che ha campato per cent'anni e che guariva le persone in cambio della loro conversione al Cristianesimo. Nel tempo libero, si dilettava ad aiutare le coppie in crisi. E ce n'erano talmente tante, di coppie, e lui era talmente popolare, che decise di riceverle in un giorno prestabilito, il 14 di ogni mese. Poi, un giorno, convertì un tipo che non doveva convertire - il figlio del prefetto di Roma, - fu arrestato dai romani e decapitato, guarda caso, il 14 di febbraio.
Su un banchetto vicino all'uscita della chiesa trovai vari volantini e santini con le preghiere stampate sul retro. Quasi tutte, però, erano - per motivi a me sconosciuti - in tedesco.


Sul portone di ferro, invece, c'erano delle strane figure, tra le quali delle mani di donna che sembravano venire risucchiate dal materiale nero e cercare disperatamente aiuto dimenandosi nell'aria. Le trovai abbastanza inquietanti, seppur affascinanti.




Poi, uscii nuovamente nell'aria calda e pollinosa. Ripresi la bici, la strada questa volta era tutta in discesa, e tornai verso casa. Mi fermai al mercato a prendere qualcosa da mangiare: una vecchietta gentilissima mi informò in dialetto umbro che tutta la frutta era fresca fresca e che stava giusto mettendo qualcosa da parte per portarla ai nipotini. Mi convinse a prendere degli agretti, una specie di erbetta che all'odore ricordava un po' la cicoria e che, disse, è tipica della zona, mi spiegò come cucinarli e mi assicurò che li avrei trovati buonissimi. Presi anche un barattolo di fagioli precotti, e la signora mi assicurò che erano freschi freschi anche quelli. "Sono arrivati questo lunedì," spiegò. La ringraziai, pagai il dovuto e me ne andai.

Wednesday, April 24, 2013

Lo scoglio.

Tornai dopo un anno:
di cambiato,
non v'era nulla
(Ale sposò Gemma, ma tanto convivevano già da una vita).
Stesso ambiente,
stessi ritmi sballati,
stesse facce conosciute,
stessi argomenti triti e ritriti,
stesse battute,
stesse due pinte di Harp Strong a sette euro al Papero a un quarto d'ora dalla chiusura,
con i soliti discorsi di calcio e politica di contorno.
E forse è una sorta di certezza, questa,
fonte di serena stabilità,
solida terra in mezzo a un mare burrascoso,
ma non è quello che vado cercando;
e le fioche luci delle lanterne che si riflettono nelle bottiglie di Oban, Tallisker e Jameson
oramai da un pezzo hanno smesso, coi loro sbrilluccichii voluttuosi,
di far sognare il mio cuore annoiato.

Quella che voi chiamate terra ferma, signori,
altro non è
che uno scoglio malefico
sul quale la mia imbarcazione
(non nobile vascello, bensì umile e sgangherata zattera)
rischia
inesorabilmente
ogni giorno
sempre più

di frantumarsi.

Thursday, March 21, 2013

La scusa perfetta.

Passi di stivali al ginocchio di finta pelle marrone baio con suola scollata alla punta che rimbombano sotto i portici deserti -

certo che di lunedì alle tre del mattino non succede proprio nulla

che tristezza

all'angolo tra via Alessandrini e via delle Moline a quest'ora si sente un rumore di cascata che pare di stare in Amazzonia, e invece è semplicemente il Reno che scorre in mezzo alle case: quel casino lì lo fa sempre, anche di giorno, solo che con la folla e i rumori e le macchine e le voci e le grida e  -

Sai com'è.

Ci mettevo diciassette minuti contati ad arrivare da casa a lavoro, diciotto quando il semaforo all'incrocio con via Indipendenza era rosso, e, volendo, ci avrei potuto impiegare diciassette minuti anche al ritorno, ma chi c'aveva voglia di andare di fretta di notte, con la stanchezza di una giornata – ma anche di una vita – intera addosso, chi c'aveva voglia di correre senza nessuno a corrermi dietro, senza la folla a calpestarmi i talloni, senza un genitore ad aspettarmi sveglio e ansioso all'uscio della porta con lo sguardo fisso all'orologio e un'espressione a metà tra il fintamente preoccupato e il verosimilmente assonnato, chi c'aveva voglia, chi?

Gli stivali al ginocchio di finta pelle marrone baio con suola scollata alla punta rimbombavano sotto i portici deserti, mi sarebbe piaciuto pensare che fosse una fredda e buia notte di inizio inverno, e invece era la fine di marzo e nell'aria c'erano già quegli odori che preannunciavano la primavera, e non faceva neanche così freddo, anzi, si stava bene anche senza guanti, e si sarebbe stati bene anche senza cappuccio, ma io lo tenevo in testa lo stesso, per nascondere il viso dietro il bordino di pelliccia finta, per evitare gli sguardi di quei pochi passanti che ogni tanto incrociavo, per rimanere il più possibile isolata nel mio microcosmo delimitato da un parka con cappuccio e pelliccia finta, pantaloni di cotone nero taglia 42 e stivali al ginocchio ecc. ecc.

Se foste passati di domenica pomeriggio da via Indipendenza verso le 16:45 mi avreste trovata appoggiata a una colonna all'altezza di via Marsala, a fumare sigarette rollate male e ad ascoltare in disparte i musicisti che suonavano – tromba, trombone, percussioni e sax – accerchiati da un cappelletto di gente, bravi, bravi, molto bravi, sì.
Belli i bambini che danzavano.

Dicevo: mi sarebbe piaciuto pensare che fosse una notte fredda e buia, Era una notte buia e tempestosa, tutti gli sfortunati romanzi di Snoopy incominciavano così, e sarebbe stato bello poter dare la colpa per il freddo e il buio a una folata di vento, o a una nube minacciosa.

E invece la notte era serena, la luna splendeva radiosa, e nell'aria tiepida si sentiva già l'arrivo della primavera, e dei fiori, e delle scorrazzate in moto sui colli, e delle birrette sul prato ai Giardini, e dei -

Toccava vivere. E vivere felici. Peccato: quella del freddo e del buio sarebbe stata una scusa perfetta.

Monday, February 4, 2013

Il rimedio.


Corse giù a perdifiato per i tre piani di scala a chiocciola, saltando i gradini di legno due alla volta, rischiando, ad
 ogni salto, di rompersi qualche osso, per quanto i gradini
 erano stretti, scivolosi e piegati verso il basso dal tempo e
 dall'usura, maledicendo sé stessa, quella vecchia catapecchia
 e la maniera che avevano gli architetti francesi di costruire
 i condomini, che allora probabilmente venivano chiamate case
 popolari, nell'ottocento, o nel settecento, o a quando cavolo
 insomma risaliva quella casa.
 Finalmente toccò il pavimento di vecchie piastrelle rotte
 del pianoterra, raggiunse il portone cigolante e lo tirò verso di
 sé con forza. Aria, aria, aveva bisogno di aria.

Uscì in quella che era una serata umida e ventosa,
 l'atmosfera era piena dell'odore del sale e dell'acqua
 stagnante del porto e del pesce rancido che portavano a riva
 i pescherecci, quell'odore così tipico e caro a chi abita le
 città di mare, tuttavia persino esso non riuscì a tirarle su
 il morale. Si incamminò nervosa sotto un cielo limpido ma
 senza neanche una stella, e per un attimo si chiese se
 fosse stato il vento a spazzarle via, insieme alle nuvole, e
 se sì, per quale diavolo di motivo, cosa gli avranno mai
 fatto quei piccoli sputazzi, come li chiamava Majakovskij,
 dico, al vento, cosa gli avranno mai fatto? Non gli basta
 prendersela con le nuvole, e cogli oceani, e con le foreste,
 e con le acconciature femminili, doveva pure dar fastidio
 alle stelle?
 Marciò rabbiosa sullo stretto marciapiede di Rue Augustine Fabre, lungo
 le scrostate mura color beije, che sicuramente una volta
 saranno state perfettamente intonacate di un bianco brillante
 per riflettere i crudeli raggi del sole estivo del
 Mezzogiorno, superò l'incrocio con Rue 3 Frères Barthélémy e raggiunse la Place Jean Jaurès. Passando sotto la farmacia, gettò un'occhiata
 all'orologio, e imprecò sottovoce: aveva di nuovo perso una
 giornata.
Era brutto camminare lì, in mezzo alla folla affaccendata che
 correva verso chissà quale importantissimo impegno, e
 sentirsi completamente inutile. Lei, non aveva impegni, non aveva faccende, non aveva obiettivi; solo un conto in banca
 che ad ogni spesa e ad ogni bolletta diminuiva sempre di più.
 Passò davanti a un mini market, e, sentendo lo stomaco
 brontolare, entrò per comprare qualcosa da mangiare. Frugò
 nelle tasche, e, con gli spiccioli che ci trovò, riuscì ad
 arrivare a due euro e sessanta. Erano tutti i contanti che
 possedeva, e decise di spenderli in una barretta di
 cioccolata con le mandorle. Uscì masticando dal mini market,
 sperando che nel frattempo sarebbe riuscita a inventarsi una
 scusa per giustificare il tempo perso, e gli obiettivi non
 raggiunti, e il proprio orgoglio ferito, e le delusioni che
 sicuramente avrà provocato alle persone che hanno creduto in
 lei, ma non riuscì a pensare a nessun motivo valido. Le
 solite vecchie scuse iniziavano a perder senso, a scolorirsi,
 a sbiadire, a diventare degli aloni appena percettibili che
 non riuscivano a coprire le sue colpe, i suoi errori, la sua
 noia, la sua pigrizia. Non bastava più dirsi che era ancora
 troppo giovane, e che non sapeva ancora cosa voleva veramente
 dalla vita, non bastava dirsi che stava cercando la propria
 strada, non bastava dirsi che stava accumulando esperienze,
 conoscendo gente, imparando nuove lingue, accrescendo il
 proprio bagaglio culturale, non bastava. Serviva di più,
 serviva molto di più, serviva un senso a tutto quello che
 stava facendo. 
    
   
Camminava in mezzo alla folla che probabilmente a quell'ora
 stava tornando a casa da un lavoro che magari a loro non
 dispiaceva, o che magari addirittura amavano, anche se ciò le
 sembrava poco probabile, ma non si sa mai, quella gente
 probabilmente stava tornando a casa, dove forse c'era
      qualcuno ad aspettarli, una moglie, un marito, dei figli, un
 cane, un nonno vecchio e malato, un conduttore televisivo
 dallo schermo in salotto. Quella gente tornava a casa perché
 sapeva di dover tornare, perché altrimenti qualcuno si
 sarebbe preoccupato, o perlomeno meravigliato, oppure perché
 dopo un'intera giornata di lavoro la stanchezza si fa sentire
 e non si vuol far altro che buttarsi a faccia in giù sul
 divano, mentre se non hai nessuno e non fai nulla dalla
 mattina alla sera, che senso ha tornare a casa?
Ma aveva un appiglio, un unico, più o meno solido, al quale
 si aggrappava ogni volta che si sentiva tirare giù in
 quell'appiccicoso e risucchiante buco nero dell'accidia e
 della disperazione. Entrò in un baretto, uno qualsiasi, uno di
 quelli anonimi, sulla Rue des 3 Mages, ordinò un caffè, che era ciò che costava di meno, si sedette nella penombra a un tavolino in un
 angolo semi nascosto da una colonna, e tirò fuori dalla borsa
 il libro che stava leggendo: era un volume vecchio e ingiallito de "Il conte di Montecristo" di Alexander Dumas, con la copertina che si teneva attaccata a malapena con due pezzettini di scotch. Lo
 aprì a pagina 384, dove aveva interrotto la lettura la volta scorsa e dove aveva fatto un'orecchietta all'angolino inferiore della pagina, si accomodò come meglio potè su quello scomodo sgabello di legno, e si disse che, quella sera, avrebbe potuto dimenticarsi dei suoi pensieri almeno fino a quando non avrebbe scoperto, suppergiù, secondo i suoi calcoli, verso pagina 450, in quale astuta e contorta maniera l'intelligente Edmond Dantes sarebbe riuscito a vendicarsi del procuratore Villefort.



Friday, January 11, 2013

Decadenza.




I profili neri delle colonne spezzate dei Fori Romani si stagliavano contro l'ultima striscia chiara di cielo rimasta all'orizzonte, giallognola come le luci che illuminavano le trafficate vie del centro. Le ultime turiste della giornata si lisciavano i capelli davanti i flash delle minuscole compatte in mano alle amiche o ai fidanzati impegnati a ritrarle sullo sfondo del Colosseo, mentre gli instancabili pseudo intellettuali, ancora in giro, nonostante l'ora, a caccia di chissà quale atmosfera tipicamente romana, si credevano originali scattando foto storte da prospettive strambe con le loro reflex Canon o Nikon impostate rigorosamente sulla modalità Auto, senza pensare che ormai Roma, con tutte le migliaia di turisti al giorno, ha finito da un pezzo tutte le possibili varianti di angolazioni dalle quali essere ripresa. Lui passò a zig zag in mezzo alle varie bancarelle di via dei Fori Imperiali, scansando scaltramente tutti gli extracomunitari che gli volevano vendere chi una rosa, chi una sciarpa, chi una riproduzione del Colosseo rinchiusa dentro un cubo di vetro, e girò attorno all'Altare della Patria, tirando rumorosamente su col naso. Aveva un mal di testa atroce. Su piazza Venezia stavano già smontando l'albero di Natale. Aveva sempre pensato che uno dei momenti più tristi in assoluto è quando vengono tolte le decorazioni di una festa, perché quel gesto sottolinea più di qualsiasi altro il passare del tempo e la caducità delle cose. E la decadenza dell'essere umano, aggiunse chissà per quale motivo tra sé e sé, anche se non c'entrava granché, ma la parola decadenza gli era sempre piaciuta, ha quel gusto un po' retrò che di questi tempi va così tanto di moda, insieme agli occhialoni con la montatura nera spessa, i maglioni extra-large e le gonne a pois. La sillabò nella propria mente, de-ca-den-za, ed effettivamente era proprio una bella parola, sapeva di qualcosa di piacevolmente triste, rimandava vagamente ai vecchi libri di letteratura e ai felici tempi della scuola, ai caldi pomeriggi di giugno passati nel parco a prepararsi all'esame di maturità, stesi sull'erba, starnutendo per il polline che piroettava nell'aria dai fiori gialli e viola, cercando di concentrarsi sugli appunti, anche se con tutte quelle ragazze in pantaloncini corti attorno era dannatamente difficile, ma perché i libri non sono altrettanto sexy?, se ci mettessero qualche foto di un culo a ogni fine capitolo, o se spruzzassero almeno le pagine di feromoni studiare sarebbe molto più semplice. De-ca-den-za, era una parola bella, con tante altre parole all'interno, dove ognuno ci può vedere quello che vuole, come in quel gioco dove si sceglie una parola lunghissima e poi bisogna creare nuove parole con le sue lettere, ecco, decadenza era qualcosa del genere, era una parola dove ognuno poteva lasciare libera la propria immaginazione, sguinzagliarla e pensare a qualsiasi cosa. Dentro c'era la parola deca, come il caffè che ormai beveva regolarmente al posto di quello normale da quando scoprì che la sua ex usava la scusa del “vado a prendere un caffè con le amiche” per scoparsi un suo compagno di classe nella macchina della madre parcheggiata dietro il campetto sportivo; c'era cade, come la caduta dal motorino a diciannove anni, a causa della quale si strappò tutti i muscoli della zona inguinale, scoprendo in seguito che le cure del giovane fisioterapista che lo veniva a trovare quotidianamente non solo non gli dispiacevano, ma gli facevano anche sentire un'eccitazione mai provata prima di allora; c'era danza, come la prima volta che andò in una discoteca gay, vergognandosi come un ladro, cambiando diecimila volte idea per strada, ci vado, no non ci vado, ma si che ci vado, per poi finire la sera stessa a limonare per la prima volta con un uomo in un angolo dietro le casse, entrambi noncuranti del volume assordante della musica. E c'era, in tutto questo, anche qualcosa che rimandava a quel dandy che era Oscar Wilde, con i suoi vizi e le sue perversioni, il sesso e le droghe, i fiori orientali e le tappezzerie costose, i velluti morbidi e le piume dorate.
Si toccò involontariamente il braccio destro, dove la sera prima una delle piume del copricapo di Marco lo aveva sfiorato, mentre lui affondava l'altra mano nei suoi capelli e gli spingeva la testa un po' più vicino al suo pene, ansimando di piacere. Sentì dei brividi passare sulla schiena. Peccato per il mal di testa. Si ripromise, per l'ennesima volta, di smetterla di farsi di quella roba pessima che portava al locale Giulio. Infilò entrambe le mani nelle tasche del cappotto, ci frugò dentro per qualche istante, e alla fine trovò, nella tasca sinistra, ciò che cercava: una confezione di antidolorifici. Era rimasta una sola pillola. La ingoiò a secco, senza neanche bisogno di bere dell'acqua, sperando che non glie ne sarebbero servite altre, quella sera. Saltò sul 409, come al solito senza biglietto. Fuori dal finestrino il cielo era diventato completamente nero, e la notte si preannunciava lunga. Quella sera il copricapo con le piume toccava a lui.

 

Wednesday, January 9, 2013

I Balcani - L'incrocio più grande d'Europa (parte 2)

(Per la PRIMA PARTE, clicca QUI)

Partii, come già detto, la mattina presto dalla stazione di Bologna Centrale, con un regionale diretto a Venezia Mestre. Lì feci la prima scoperta del mio viaggio: il Mc Donalds locale non dispone di wi-fi e i bagni sono a pagamento, e siccome queste sono le uniche due cose per le quali, secondo me, la catena dalla grande M gialla ha ancora un diritto all'esistenza, non vidi l'ora di prendere il treno successivo per Gorizia.
I treni del nord Italia sono davvero dei Signori Treni, con la T maiuscola, e sono una di quelle poche cose che ricorda, ogni tanto, che dopotutto l'Italia fa parte dell'Unione Europea, la quale, in teoria, dovrebbe essere la nazione più evoluta e benestante del mondo. I treni del nord Italia sono nuovi, puliti, veloci, con tanto di pannello luminoso che indica le prossime fermate, la data, l'ora, e, a volte, addirittura la velocità del treno e la temperatura esterna. Il pensiero involontariamente va ai catorci che circolano invece al sud, ai treni che sono quasi tutti di seconda mano, che vengono mandati dal nord a vivere la loro vecchiaia come anziani nelle case di riposo, lasciati correre senza fretta le loro ultime corse, prima di esalare l'ultimo fatidico respiro e sfasciarsi nel bel mezzo di un qualche campo di grano campano, o un oliveto pugliese, o tra le dolomiti lucane, o sugli scogli calabri. Mi ha sempre destato sconforto leggere dei treni sempre più veloci e moderni che sfrecciano al nord, mentre ogni anno al sud le corse diminuiscono sempre di più: non esiste più l'Eurostar Roma-Taranto, è scomparso il Roma-Lecce, non si sa nemmeno se è mai esistito un Roma-Potenza, e tutte le tratte vengono affidate ai rari Intercity Notte, o agli ancora più rari regionali, per viaggiare con i quali bisogna fare almeno uno o due scali. Sembra quasi che tutto quello che viene tagliato al sud venga aggiunto al nord, nell'assurda logica di un mondo dove si toglie ai poveri per dare ai ricchi.
Pensavo a questo, mentre sfrecciavo per i grigi acquitrini veneti, e pensavo a come fosse triste doversi meravigliare di fronte a un servizio pubblico efficiente, senza nemmeno immaginare che di lì a pochi giorni, rinchiusa in un vagoncino rumoroso che arrancava faticosamente su per i bordi delle montagne montenegrine, avrei rimpianto persino il luridissimo Bari-Taranto, promettendo a me stessa di non lamentarmi mai e mai più dei disservizi di Trenitalia.

Saturday, January 5, 2013

Capodanno ad Amsterdam.

Avevano iniziato a sparare i botti fin dal mattino presto, anche se loro dormivano troppo profondamente per sentirli davvero. A un certo punto, per la terza volta nell'ultima mezzora, la sveglia del cellulare suonò, lui allungò da sotto il piumino un braccio e diede una manata al cellulare, facendolo cadere sul pavimento polveroso. La batteria del vecchio Nokia si staccò per l'urto, e la sveglia si spense. Lui alzò la testa, gettò un'occhiata fuori dalla finestra all'orologio digitale che segnava l'ora a numeri rossi dal palazzone di fronte, e fece un balzo. "Cazzo, è tardi. Alzati, dai." Lei emise un gemito e si arrotolò ancora di più nella coperta, voltandogli le spalle. "E dai!", ripeté lui, dandole una scrollata, "dobbiamo lasciare la camera tra dieci minuti!"
Lei si alzò faticosamente su un gomito, stordita, e si strofinò gli occhi. Lui si stava già vestendo, e stava cercando confusamente con la mano la manica della felpa, goffo e impacciato dal sonno. Lei si stiracchiò, il cuscino sembrava attirare la sua testa come una calamita, le palpebre ancora incollate, la testa come riempita di nebbia, la lingua secca che strofinava come carta vetrata sul palato.
"Abbiamo dell'acqua?"
"No."
I dieci minuti erano passati abbondantemente. La donna delle pulizie venne a bussare alla porta con fare impaziente, predicando qualcosa in olandese. Loro le lanciarono in risposta qualche bestemmia in italiano, finendo di ficcare la roba alla rinfusa negli zaini. Finalmente riuscirono a lasciare la camera, sotto lo sguardo accusatorio del receptionist che non tollerava ritardi nel check out. Gli protesero la chiave, thank you, you're welcome, bye, bye, la porta d'ingresso scricchiolò rumorosamente mentre veniva aperta, ma andate a farvi fottere, probabilmente il receptionist pensò lo stesso nella sua lingua. Fuori tirava un vento forte e piovigginava fastidiosamente.
"Dovremmo trovare una sistemazione per stanotte."
"I prezzi a capodanno saranno alle stelle, e soldi non ce ne sono."
"Proviamo a cercare un lavoro. Magari hanno bisogno di una mano per tutti i festoni di fine anno."
"Prima però un caffè."
"E una canna."
"E una canna."
Cercare lavoro non è esattamente una cosa che uno si propone di fare l'ultimo di dicembre, quando la città è carica di un'energia frenetica e insensata e l'aria si riempie di spari che neanche la guerra in Afghanistan. Tutti che vanno di fretta, tutti che corrono, tutti che si preparano per i festeggiamenti, tutti che sperano chissà che cosa dall'anno entrante, ripetendo, di anno in anno, sempre le stesse frasi, quest'anno ci ha portato tante cose, belle e brutte, ma speriamo che l'anno prossimo sia meglio, senza realizzare che se si spera in tempi migliori vuol dire che quelli appena trascorsi facevano davvero schifo al cazzo.
Il caffè era pessimo, d'altronde trovare un bar che lo facesse bene a quelle latitudini era praticamente impossibile. L'unico modo per mandare giù quella brodaglia disgustosa era buttarci dentro due o tre bustine di zucchero, oppure del latte, quando non te lo facevano pagare in più. Col bicchiere di carta da un quarto di litro in mano, iniziarono a girare per le affollate stradine di Amsterdam, confondendosi nel labirinto dei canali pieni di acqua grigio-verdastra, in mezzo a quelle case dai mattoncini rossi che sembravano fatte coi Lego, tutte storte, accasciate l'una sull'altra, come ubriachi che si sostengono a vicenda e cantano canzoni della propria gioventù piene di nostalgia e di amori lontani.
"Ma non ci eravamo già passati di qui?"
"Boh, sei tu quella che ha la mappa."
"Ma sì, guarda, ti ricordi che ci siamo fermati davanti questo sexy shop?"
"Ah sì, è vero."
Fecero forse il giro di tutti i locali del centro storico, e la risposta era più o meno sempre la stessa: ci dispiace, ripassa in primavera, guarda non è il caso, al massimo lasciateci un curriculum.
"Tienimi la canna, provo ad entrare dentro questo, mi ispira."
Lei rimaneva fuori, tenendo con indice e pollice della mano sinistra lo spino di lui rivolto verso l'interno, proteggendolo con il palmo della mano dalla pioggia, mentre con la destra continuava a fumare il proprio. Raramente ne rollavano uno in due, preferivano farne due diversi, così ognuno decideva la propria dose. Guardò lui attraverso il vetro del ristorante avvicinarsi al bancone, come già lo aveva visto fare in decine di altri ristoranti, chiedere qualcosa al cameriere, vedere il cameriere scuotere seccamente il capo, poi lui sorridere amaramente, ringraziando, e uscire sconsolato a testa bassa.
"Niente da fare, neanche qui."
"Tieni," disse in tutta risposta lei, ridandogli la canna.
Non si accorsero nemmeno come scese su di loro la notte. L'euforia tra la folla era a mille, entrare in un locale era diventato impossibile da quanto erano pieni. Alla fine si arresero e optarono per la stazione centrale: era l'unico posto al chiuso dove si potevano permettere di dormire, tuttavia quando la raggiunsero la trovarono chiusa. Per motivi di sicurezza, diceva un cartello. Si accasciarono, esausti, sotto una pensilina, accanto a un ragazzo senza giacca che dormiva accoccolato su se stesso. Tremante dal freddo, nel cappotto fradicio che le faceva sentire il freddo fin dentro le ossa, lei cercò di imitarlo, poggiando la testa sulla spalla di lui, ma non c'era nulla da fare. Il tempo sembrava non passare mai, e sembrava surreale quanta gente intorno stesse aspettando con così tanta impazienza il momento quando entrambe le lancette dell'orologio avrebbero toccato il numero 12. Le strade erano intasate, la fila per i taxi arrivava fino all'edificio del centro informazioni, e da tutte le parti risuonavano voci, risate, canti, grida. I botti si facevano sempre più frequenti e sempre più insistenti. Finalmente - tre, due, uno! - il momento tanto atteso arrivò, facendo esplodere la città di luci e fuochi d'artificio. Era arrivato, questo cazzo di 2013.
"Buon anno, amore," disse lui.
Lei non rispose.
Affianco, un ubriaco sgocciolò accuratamente una bottiglia di spumante sulla punta della scarpa sinistra del ragazzo che continuava a dormire indisturbato, dopo di che poggiò la bottiglia a terra e, ridacchiando, si allontanò.