Friday, January 11, 2013

Decadenza.




I profili neri delle colonne spezzate dei Fori Romani si stagliavano contro l'ultima striscia chiara di cielo rimasta all'orizzonte, giallognola come le luci che illuminavano le trafficate vie del centro. Le ultime turiste della giornata si lisciavano i capelli davanti i flash delle minuscole compatte in mano alle amiche o ai fidanzati impegnati a ritrarle sullo sfondo del Colosseo, mentre gli instancabili pseudo intellettuali, ancora in giro, nonostante l'ora, a caccia di chissà quale atmosfera tipicamente romana, si credevano originali scattando foto storte da prospettive strambe con le loro reflex Canon o Nikon impostate rigorosamente sulla modalità Auto, senza pensare che ormai Roma, con tutte le migliaia di turisti al giorno, ha finito da un pezzo tutte le possibili varianti di angolazioni dalle quali essere ripresa. Lui passò a zig zag in mezzo alle varie bancarelle di via dei Fori Imperiali, scansando scaltramente tutti gli extracomunitari che gli volevano vendere chi una rosa, chi una sciarpa, chi una riproduzione del Colosseo rinchiusa dentro un cubo di vetro, e girò attorno all'Altare della Patria, tirando rumorosamente su col naso. Aveva un mal di testa atroce. Su piazza Venezia stavano già smontando l'albero di Natale. Aveva sempre pensato che uno dei momenti più tristi in assoluto è quando vengono tolte le decorazioni di una festa, perché quel gesto sottolinea più di qualsiasi altro il passare del tempo e la caducità delle cose. E la decadenza dell'essere umano, aggiunse chissà per quale motivo tra sé e sé, anche se non c'entrava granché, ma la parola decadenza gli era sempre piaciuta, ha quel gusto un po' retrò che di questi tempi va così tanto di moda, insieme agli occhialoni con la montatura nera spessa, i maglioni extra-large e le gonne a pois. La sillabò nella propria mente, de-ca-den-za, ed effettivamente era proprio una bella parola, sapeva di qualcosa di piacevolmente triste, rimandava vagamente ai vecchi libri di letteratura e ai felici tempi della scuola, ai caldi pomeriggi di giugno passati nel parco a prepararsi all'esame di maturità, stesi sull'erba, starnutendo per il polline che piroettava nell'aria dai fiori gialli e viola, cercando di concentrarsi sugli appunti, anche se con tutte quelle ragazze in pantaloncini corti attorno era dannatamente difficile, ma perché i libri non sono altrettanto sexy?, se ci mettessero qualche foto di un culo a ogni fine capitolo, o se spruzzassero almeno le pagine di feromoni studiare sarebbe molto più semplice. De-ca-den-za, era una parola bella, con tante altre parole all'interno, dove ognuno ci può vedere quello che vuole, come in quel gioco dove si sceglie una parola lunghissima e poi bisogna creare nuove parole con le sue lettere, ecco, decadenza era qualcosa del genere, era una parola dove ognuno poteva lasciare libera la propria immaginazione, sguinzagliarla e pensare a qualsiasi cosa. Dentro c'era la parola deca, come il caffè che ormai beveva regolarmente al posto di quello normale da quando scoprì che la sua ex usava la scusa del “vado a prendere un caffè con le amiche” per scoparsi un suo compagno di classe nella macchina della madre parcheggiata dietro il campetto sportivo; c'era cade, come la caduta dal motorino a diciannove anni, a causa della quale si strappò tutti i muscoli della zona inguinale, scoprendo in seguito che le cure del giovane fisioterapista che lo veniva a trovare quotidianamente non solo non gli dispiacevano, ma gli facevano anche sentire un'eccitazione mai provata prima di allora; c'era danza, come la prima volta che andò in una discoteca gay, vergognandosi come un ladro, cambiando diecimila volte idea per strada, ci vado, no non ci vado, ma si che ci vado, per poi finire la sera stessa a limonare per la prima volta con un uomo in un angolo dietro le casse, entrambi noncuranti del volume assordante della musica. E c'era, in tutto questo, anche qualcosa che rimandava a quel dandy che era Oscar Wilde, con i suoi vizi e le sue perversioni, il sesso e le droghe, i fiori orientali e le tappezzerie costose, i velluti morbidi e le piume dorate.
Si toccò involontariamente il braccio destro, dove la sera prima una delle piume del copricapo di Marco lo aveva sfiorato, mentre lui affondava l'altra mano nei suoi capelli e gli spingeva la testa un po' più vicino al suo pene, ansimando di piacere. Sentì dei brividi passare sulla schiena. Peccato per il mal di testa. Si ripromise, per l'ennesima volta, di smetterla di farsi di quella roba pessima che portava al locale Giulio. Infilò entrambe le mani nelle tasche del cappotto, ci frugò dentro per qualche istante, e alla fine trovò, nella tasca sinistra, ciò che cercava: una confezione di antidolorifici. Era rimasta una sola pillola. La ingoiò a secco, senza neanche bisogno di bere dell'acqua, sperando che non glie ne sarebbero servite altre, quella sera. Saltò sul 409, come al solito senza biglietto. Fuori dal finestrino il cielo era diventato completamente nero, e la notte si preannunciava lunga. Quella sera il copricapo con le piume toccava a lui.

 

Wednesday, January 9, 2013

I Balcani - L'incrocio più grande d'Europa (parte 2)

(Per la PRIMA PARTE, clicca QUI)

Partii, come già detto, la mattina presto dalla stazione di Bologna Centrale, con un regionale diretto a Venezia Mestre. Lì feci la prima scoperta del mio viaggio: il Mc Donalds locale non dispone di wi-fi e i bagni sono a pagamento, e siccome queste sono le uniche due cose per le quali, secondo me, la catena dalla grande M gialla ha ancora un diritto all'esistenza, non vidi l'ora di prendere il treno successivo per Gorizia.
I treni del nord Italia sono davvero dei Signori Treni, con la T maiuscola, e sono una di quelle poche cose che ricorda, ogni tanto, che dopotutto l'Italia fa parte dell'Unione Europea, la quale, in teoria, dovrebbe essere la nazione più evoluta e benestante del mondo. I treni del nord Italia sono nuovi, puliti, veloci, con tanto di pannello luminoso che indica le prossime fermate, la data, l'ora, e, a volte, addirittura la velocità del treno e la temperatura esterna. Il pensiero involontariamente va ai catorci che circolano invece al sud, ai treni che sono quasi tutti di seconda mano, che vengono mandati dal nord a vivere la loro vecchiaia come anziani nelle case di riposo, lasciati correre senza fretta le loro ultime corse, prima di esalare l'ultimo fatidico respiro e sfasciarsi nel bel mezzo di un qualche campo di grano campano, o un oliveto pugliese, o tra le dolomiti lucane, o sugli scogli calabri. Mi ha sempre destato sconforto leggere dei treni sempre più veloci e moderni che sfrecciano al nord, mentre ogni anno al sud le corse diminuiscono sempre di più: non esiste più l'Eurostar Roma-Taranto, è scomparso il Roma-Lecce, non si sa nemmeno se è mai esistito un Roma-Potenza, e tutte le tratte vengono affidate ai rari Intercity Notte, o agli ancora più rari regionali, per viaggiare con i quali bisogna fare almeno uno o due scali. Sembra quasi che tutto quello che viene tagliato al sud venga aggiunto al nord, nell'assurda logica di un mondo dove si toglie ai poveri per dare ai ricchi.
Pensavo a questo, mentre sfrecciavo per i grigi acquitrini veneti, e pensavo a come fosse triste doversi meravigliare di fronte a un servizio pubblico efficiente, senza nemmeno immaginare che di lì a pochi giorni, rinchiusa in un vagoncino rumoroso che arrancava faticosamente su per i bordi delle montagne montenegrine, avrei rimpianto persino il luridissimo Bari-Taranto, promettendo a me stessa di non lamentarmi mai e mai più dei disservizi di Trenitalia.

Saturday, January 5, 2013

Capodanno ad Amsterdam.

Avevano iniziato a sparare i botti fin dal mattino presto, anche se loro dormivano troppo profondamente per sentirli davvero. A un certo punto, per la terza volta nell'ultima mezzora, la sveglia del cellulare suonò, lui allungò da sotto il piumino un braccio e diede una manata al cellulare, facendolo cadere sul pavimento polveroso. La batteria del vecchio Nokia si staccò per l'urto, e la sveglia si spense. Lui alzò la testa, gettò un'occhiata fuori dalla finestra all'orologio digitale che segnava l'ora a numeri rossi dal palazzone di fronte, e fece un balzo. "Cazzo, è tardi. Alzati, dai." Lei emise un gemito e si arrotolò ancora di più nella coperta, voltandogli le spalle. "E dai!", ripeté lui, dandole una scrollata, "dobbiamo lasciare la camera tra dieci minuti!"
Lei si alzò faticosamente su un gomito, stordita, e si strofinò gli occhi. Lui si stava già vestendo, e stava cercando confusamente con la mano la manica della felpa, goffo e impacciato dal sonno. Lei si stiracchiò, il cuscino sembrava attirare la sua testa come una calamita, le palpebre ancora incollate, la testa come riempita di nebbia, la lingua secca che strofinava come carta vetrata sul palato.
"Abbiamo dell'acqua?"
"No."
I dieci minuti erano passati abbondantemente. La donna delle pulizie venne a bussare alla porta con fare impaziente, predicando qualcosa in olandese. Loro le lanciarono in risposta qualche bestemmia in italiano, finendo di ficcare la roba alla rinfusa negli zaini. Finalmente riuscirono a lasciare la camera, sotto lo sguardo accusatorio del receptionist che non tollerava ritardi nel check out. Gli protesero la chiave, thank you, you're welcome, bye, bye, la porta d'ingresso scricchiolò rumorosamente mentre veniva aperta, ma andate a farvi fottere, probabilmente il receptionist pensò lo stesso nella sua lingua. Fuori tirava un vento forte e piovigginava fastidiosamente.
"Dovremmo trovare una sistemazione per stanotte."
"I prezzi a capodanno saranno alle stelle, e soldi non ce ne sono."
"Proviamo a cercare un lavoro. Magari hanno bisogno di una mano per tutti i festoni di fine anno."
"Prima però un caffè."
"E una canna."
"E una canna."
Cercare lavoro non è esattamente una cosa che uno si propone di fare l'ultimo di dicembre, quando la città è carica di un'energia frenetica e insensata e l'aria si riempie di spari che neanche la guerra in Afghanistan. Tutti che vanno di fretta, tutti che corrono, tutti che si preparano per i festeggiamenti, tutti che sperano chissà che cosa dall'anno entrante, ripetendo, di anno in anno, sempre le stesse frasi, quest'anno ci ha portato tante cose, belle e brutte, ma speriamo che l'anno prossimo sia meglio, senza realizzare che se si spera in tempi migliori vuol dire che quelli appena trascorsi facevano davvero schifo al cazzo.
Il caffè era pessimo, d'altronde trovare un bar che lo facesse bene a quelle latitudini era praticamente impossibile. L'unico modo per mandare giù quella brodaglia disgustosa era buttarci dentro due o tre bustine di zucchero, oppure del latte, quando non te lo facevano pagare in più. Col bicchiere di carta da un quarto di litro in mano, iniziarono a girare per le affollate stradine di Amsterdam, confondendosi nel labirinto dei canali pieni di acqua grigio-verdastra, in mezzo a quelle case dai mattoncini rossi che sembravano fatte coi Lego, tutte storte, accasciate l'una sull'altra, come ubriachi che si sostengono a vicenda e cantano canzoni della propria gioventù piene di nostalgia e di amori lontani.
"Ma non ci eravamo già passati di qui?"
"Boh, sei tu quella che ha la mappa."
"Ma sì, guarda, ti ricordi che ci siamo fermati davanti questo sexy shop?"
"Ah sì, è vero."
Fecero forse il giro di tutti i locali del centro storico, e la risposta era più o meno sempre la stessa: ci dispiace, ripassa in primavera, guarda non è il caso, al massimo lasciateci un curriculum.
"Tienimi la canna, provo ad entrare dentro questo, mi ispira."
Lei rimaneva fuori, tenendo con indice e pollice della mano sinistra lo spino di lui rivolto verso l'interno, proteggendolo con il palmo della mano dalla pioggia, mentre con la destra continuava a fumare il proprio. Raramente ne rollavano uno in due, preferivano farne due diversi, così ognuno decideva la propria dose. Guardò lui attraverso il vetro del ristorante avvicinarsi al bancone, come già lo aveva visto fare in decine di altri ristoranti, chiedere qualcosa al cameriere, vedere il cameriere scuotere seccamente il capo, poi lui sorridere amaramente, ringraziando, e uscire sconsolato a testa bassa.
"Niente da fare, neanche qui."
"Tieni," disse in tutta risposta lei, ridandogli la canna.
Non si accorsero nemmeno come scese su di loro la notte. L'euforia tra la folla era a mille, entrare in un locale era diventato impossibile da quanto erano pieni. Alla fine si arresero e optarono per la stazione centrale: era l'unico posto al chiuso dove si potevano permettere di dormire, tuttavia quando la raggiunsero la trovarono chiusa. Per motivi di sicurezza, diceva un cartello. Si accasciarono, esausti, sotto una pensilina, accanto a un ragazzo senza giacca che dormiva accoccolato su se stesso. Tremante dal freddo, nel cappotto fradicio che le faceva sentire il freddo fin dentro le ossa, lei cercò di imitarlo, poggiando la testa sulla spalla di lui, ma non c'era nulla da fare. Il tempo sembrava non passare mai, e sembrava surreale quanta gente intorno stesse aspettando con così tanta impazienza il momento quando entrambe le lancette dell'orologio avrebbero toccato il numero 12. Le strade erano intasate, la fila per i taxi arrivava fino all'edificio del centro informazioni, e da tutte le parti risuonavano voci, risate, canti, grida. I botti si facevano sempre più frequenti e sempre più insistenti. Finalmente - tre, due, uno! - il momento tanto atteso arrivò, facendo esplodere la città di luci e fuochi d'artificio. Era arrivato, questo cazzo di 2013.
"Buon anno, amore," disse lui.
Lei non rispose.
Affianco, un ubriaco sgocciolò accuratamente una bottiglia di spumante sulla punta della scarpa sinistra del ragazzo che continuava a dormire indisturbato, dopo di che poggiò la bottiglia a terra e, ridacchiando, si allontanò.