Monday, February 4, 2013
Il rimedio.
Corse giù a perdifiato per i tre piani di scala a chiocciola, saltando i gradini di legno due alla volta, rischiando, ad ogni salto, di rompersi qualche osso, per quanto i gradini erano stretti, scivolosi e piegati verso il basso dal tempo e dall'usura, maledicendo sé stessa, quella vecchia catapecchia e la maniera che avevano gli architetti francesi di costruire i condomini, che allora probabilmente venivano chiamate case popolari, nell'ottocento, o nel settecento, o a quando cavolo insomma risaliva quella casa. Finalmente toccò il pavimento di vecchie piastrelle rotte del pianoterra, raggiunse il portone cigolante e lo tirò verso di sé con forza. Aria, aria, aveva bisogno di aria.
Uscì in quella che era una serata umida e ventosa, l'atmosfera era piena dell'odore del sale e dell'acqua stagnante del porto e del pesce rancido che portavano a riva i pescherecci, quell'odore così tipico e caro a chi abita le città di mare, tuttavia persino esso non riuscì a tirarle su il morale. Si incamminò nervosa sotto un cielo limpido ma senza neanche una stella, e per un attimo si chiese se fosse stato il vento a spazzarle via, insieme alle nuvole, e se sì, per quale diavolo di motivo, cosa gli avranno mai fatto quei piccoli sputazzi, come li chiamava Majakovskij, dico, al vento, cosa gli avranno mai fatto? Non gli basta prendersela con le nuvole, e cogli oceani, e con le foreste, e con le acconciature femminili, doveva pure dar fastidio alle stelle? Marciò rabbiosa sullo stretto marciapiede di Rue Augustine Fabre, lungo le scrostate mura color beije, che sicuramente una volta saranno state perfettamente intonacate di un bianco brillante per riflettere i crudeli raggi del sole estivo del Mezzogiorno, superò l'incrocio con Rue 3 Frères Barthélémy e raggiunse la Place Jean Jaurès. Passando sotto la farmacia, gettò un'occhiata all'orologio, e imprecò sottovoce: aveva di nuovo perso una giornata.
Era brutto camminare lì, in mezzo alla folla affaccendata che correva verso chissà quale importantissimo impegno, e sentirsi completamente inutile. Lei, non aveva impegni, non aveva faccende, non aveva obiettivi; solo un conto in banca che ad ogni spesa e ad ogni bolletta diminuiva sempre di più. Passò davanti a un mini market, e, sentendo lo stomaco brontolare, entrò per comprare qualcosa da mangiare. Frugò nelle tasche, e, con gli spiccioli che ci trovò, riuscì ad arrivare a due euro e sessanta. Erano tutti i contanti che possedeva, e decise di spenderli in una barretta di cioccolata con le mandorle. Uscì masticando dal mini market, sperando che nel frattempo sarebbe riuscita a inventarsi una scusa per giustificare il tempo perso, e gli obiettivi non raggiunti, e il proprio orgoglio ferito, e le delusioni che sicuramente avrà provocato alle persone che hanno creduto in lei, ma non riuscì a pensare a nessun motivo valido. Le solite vecchie scuse iniziavano a perder senso, a scolorirsi, a sbiadire, a diventare degli aloni appena percettibili che non riuscivano a coprire le sue colpe, i suoi errori, la sua noia, la sua pigrizia. Non bastava più dirsi che era ancora troppo giovane, e che non sapeva ancora cosa voleva veramente dalla vita, non bastava dirsi che stava cercando la propria strada, non bastava dirsi che stava accumulando esperienze, conoscendo gente, imparando nuove lingue, accrescendo il proprio bagaglio culturale, non bastava. Serviva di più, serviva molto di più, serviva un senso a tutto quello che stava facendo.
Camminava in mezzo alla folla che probabilmente a quell'ora stava tornando a casa da un lavoro che magari a loro non dispiaceva, o che magari addirittura amavano, anche se ciò le sembrava poco probabile, ma non si sa mai, quella gente probabilmente stava tornando a casa, dove forse c'era qualcuno ad aspettarli, una moglie, un marito, dei figli, un cane, un nonno vecchio e malato, un conduttore televisivo dallo schermo in salotto. Quella gente tornava a casa perché sapeva di dover tornare, perché altrimenti qualcuno si sarebbe preoccupato, o perlomeno meravigliato, oppure perché dopo un'intera giornata di lavoro la stanchezza si fa sentire e non si vuol far altro che buttarsi a faccia in giù sul divano, mentre se non hai nessuno e non fai nulla dalla mattina alla sera, che senso ha tornare a casa?
Ma aveva un appiglio, un unico, più o meno solido, al quale si aggrappava ogni volta che si sentiva tirare giù in quell'appiccicoso e risucchiante buco nero dell'accidia e della disperazione. Entrò in un baretto, uno qualsiasi, uno di quelli anonimi, sulla Rue des 3 Mages, ordinò un caffè, che era ciò che costava di meno, si sedette nella penombra a un tavolino in un angolo semi nascosto da una colonna, e tirò fuori dalla borsa il libro che stava leggendo: era un volume vecchio e ingiallito de "Il conte di Montecristo" di Alexander Dumas, con la copertina che si teneva attaccata a malapena con due pezzettini di scotch. Lo aprì a pagina 384, dove aveva interrotto la lettura la volta scorsa e dove aveva fatto un'orecchietta all'angolino inferiore della pagina, si accomodò come meglio potè su quello scomodo sgabello di legno, e si disse che, quella sera, avrebbe potuto dimenticarsi dei suoi pensieri almeno fino a quando non avrebbe scoperto, suppergiù, secondo i suoi calcoli, verso pagina 450, in quale astuta e contorta maniera l'intelligente Edmond Dantes sarebbe riuscito a vendicarsi del procuratore Villefort.
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