I profili neri delle colonne spezzate dei Fori Romani si stagliavano contro l'ultima striscia chiara di cielo rimasta all'orizzonte, giallognola come le luci che illuminavano le trafficate vie del centro. Le ultime turiste della giornata si lisciavano i capelli davanti i flash delle minuscole compatte in mano alle amiche o ai fidanzati impegnati a ritrarle sullo sfondo del Colosseo, mentre gli instancabili pseudo intellettuali, ancora in giro, nonostante l'ora, a caccia di chissà quale atmosfera tipicamente romana, si credevano originali scattando foto storte da prospettive strambe con le loro reflex Canon o Nikon impostate rigorosamente sulla modalità Auto, senza pensare che ormai Roma, con tutte le migliaia di turisti al giorno, ha finito da un pezzo tutte le possibili varianti di angolazioni dalle quali essere ripresa. Lui passò a zig zag in mezzo alle varie bancarelle di via dei Fori Imperiali, scansando scaltramente tutti gli extracomunitari che gli volevano vendere chi una rosa, chi una sciarpa, chi una riproduzione del Colosseo rinchiusa dentro un cubo di vetro, e girò attorno all'Altare della Patria, tirando rumorosamente su col naso. Aveva un mal di testa atroce. Su piazza Venezia stavano già smontando l'albero di Natale. Aveva sempre pensato che uno dei momenti più tristi in assoluto è quando vengono tolte le decorazioni di una festa, perché quel gesto sottolinea più di qualsiasi altro il passare del tempo e la caducità delle cose. E la decadenza dell'essere umano, aggiunse chissà per quale motivo tra sé e sé, anche se non c'entrava granché, ma la parola decadenza gli era sempre piaciuta, ha quel gusto un po' retrò che di questi tempi va così tanto di moda, insieme agli occhialoni con la montatura nera spessa, i maglioni extra-large e le gonne a pois. La sillabò nella propria mente, de-ca-den-za, ed effettivamente era proprio una bella parola, sapeva di qualcosa di piacevolmente triste, rimandava vagamente ai vecchi libri di letteratura e ai felici tempi della scuola, ai caldi pomeriggi di giugno passati nel parco a prepararsi all'esame di maturità, stesi sull'erba, starnutendo per il polline che piroettava nell'aria dai fiori gialli e viola, cercando di concentrarsi sugli appunti, anche se con tutte quelle ragazze in pantaloncini corti attorno era dannatamente difficile, ma perché i libri non sono altrettanto sexy?, se ci mettessero qualche foto di un culo a ogni fine capitolo, o se spruzzassero almeno le pagine di feromoni studiare sarebbe molto più semplice. De-ca-den-za, era una parola bella, con tante altre parole all'interno, dove ognuno ci può vedere quello che vuole, come in quel gioco dove si sceglie una parola lunghissima e poi bisogna creare nuove parole con le sue lettere, ecco, decadenza era qualcosa del genere, era una parola dove ognuno poteva lasciare libera la propria immaginazione, sguinzagliarla e pensare a qualsiasi cosa. Dentro c'era la parola deca, come il caffè che ormai beveva regolarmente al posto di quello normale da quando scoprì che la sua ex usava la scusa del “vado a prendere un caffè con le amiche” per scoparsi un suo compagno di classe nella macchina della madre parcheggiata dietro il campetto sportivo; c'era cade, come la caduta dal motorino a diciannove anni, a causa della quale si strappò tutti i muscoli della zona inguinale, scoprendo in seguito che le cure del giovane fisioterapista che lo veniva a trovare quotidianamente non solo non gli dispiacevano, ma gli facevano anche sentire un'eccitazione mai provata prima di allora; c'era danza, come la prima volta che andò in una discoteca gay, vergognandosi come un ladro, cambiando diecimila volte idea per strada, ci vado, no non ci vado, ma si che ci vado, per poi finire la sera stessa a limonare per la prima volta con un uomo in un angolo dietro le casse, entrambi noncuranti del volume assordante della musica. E c'era, in tutto questo, anche qualcosa che rimandava a quel dandy che era Oscar Wilde, con i suoi vizi e le sue perversioni, il sesso e le droghe, i fiori orientali e le tappezzerie costose, i velluti morbidi e le piume dorate.
Si toccò involontariamente il braccio destro, dove la sera prima una delle piume del copricapo di Marco lo aveva sfiorato, mentre lui affondava l'altra mano nei suoi capelli e gli spingeva la testa un po' più vicino al suo pene, ansimando di piacere. Sentì dei brividi passare sulla schiena. Peccato per il mal di testa. Si ripromise, per l'ennesima volta, di smetterla di farsi di quella roba pessima che portava al locale Giulio. Infilò entrambe le mani nelle tasche del cappotto, ci frugò dentro per qualche istante, e alla fine trovò, nella tasca sinistra, ciò che cercava: una confezione di antidolorifici. Era rimasta una sola pillola. La ingoiò a secco, senza neanche bisogno di bere dell'acqua, sperando che non glie ne sarebbero servite altre, quella sera. Saltò sul 409, come al solito senza biglietto. Fuori dal finestrino il cielo era diventato completamente nero, e la notte si preannunciava lunga. Quella sera il copricapo con le piume toccava a lui.
