Wednesday, January 9, 2013

I Balcani - L'incrocio più grande d'Europa (parte 2)

(Per la PRIMA PARTE, clicca QUI)

Partii, come già detto, la mattina presto dalla stazione di Bologna Centrale, con un regionale diretto a Venezia Mestre. Lì feci la prima scoperta del mio viaggio: il Mc Donalds locale non dispone di wi-fi e i bagni sono a pagamento, e siccome queste sono le uniche due cose per le quali, secondo me, la catena dalla grande M gialla ha ancora un diritto all'esistenza, non vidi l'ora di prendere il treno successivo per Gorizia.
I treni del nord Italia sono davvero dei Signori Treni, con la T maiuscola, e sono una di quelle poche cose che ricorda, ogni tanto, che dopotutto l'Italia fa parte dell'Unione Europea, la quale, in teoria, dovrebbe essere la nazione più evoluta e benestante del mondo. I treni del nord Italia sono nuovi, puliti, veloci, con tanto di pannello luminoso che indica le prossime fermate, la data, l'ora, e, a volte, addirittura la velocità del treno e la temperatura esterna. Il pensiero involontariamente va ai catorci che circolano invece al sud, ai treni che sono quasi tutti di seconda mano, che vengono mandati dal nord a vivere la loro vecchiaia come anziani nelle case di riposo, lasciati correre senza fretta le loro ultime corse, prima di esalare l'ultimo fatidico respiro e sfasciarsi nel bel mezzo di un qualche campo di grano campano, o un oliveto pugliese, o tra le dolomiti lucane, o sugli scogli calabri. Mi ha sempre destato sconforto leggere dei treni sempre più veloci e moderni che sfrecciano al nord, mentre ogni anno al sud le corse diminuiscono sempre di più: non esiste più l'Eurostar Roma-Taranto, è scomparso il Roma-Lecce, non si sa nemmeno se è mai esistito un Roma-Potenza, e tutte le tratte vengono affidate ai rari Intercity Notte, o agli ancora più rari regionali, per viaggiare con i quali bisogna fare almeno uno o due scali. Sembra quasi che tutto quello che viene tagliato al sud venga aggiunto al nord, nell'assurda logica di un mondo dove si toglie ai poveri per dare ai ricchi.
Pensavo a questo, mentre sfrecciavo per i grigi acquitrini veneti, e pensavo a come fosse triste doversi meravigliare di fronte a un servizio pubblico efficiente, senza nemmeno immaginare che di lì a pochi giorni, rinchiusa in un vagoncino rumoroso che arrancava faticosamente su per i bordi delle montagne montenegrine, avrei rimpianto persino il luridissimo Bari-Taranto, promettendo a me stessa di non lamentarmi mai e mai più dei disservizi di Trenitalia.

Arrivai a Gorizia verso l'ora di pranzo, e, avendo ancora una buona ora di tempo a disposizione, ne approfittai per fare un giro per il centro storico. Gorizia è una classica no man's land, caratteristica comune a tutte le città di confine, che in teoria sono di qua ma in pratica sono anche un po' di là. Una volta questo era territorio sloveno, ma venne accaparrato dall'Italia durante la Prima Guerra Mondiale. Gli sloveni, tuttavia, non sono un popolo che si perde d'animo facilmente: si rimboccarono le maniche e ricostruirono la propria città dall'altro lato del confine, come in uno specchio, dandole il nome di Nova Gorica, Nuova Gorizia.
Attraversai diverse vie e piazze di Gorizia, tutte rigorosamente deserte, con una sempre crescente impressione di città-fantasma, quasi a riconfermare che questa è la città vecchia, quella ormai inutile, abbandonata, mentre tutta la vita e la gioventù sta dall'altra parte del confine, e con quella inquietante sensazione arrivai in piazza Cavour, dalla quale, mi dissero, avrei potuto prendere un bus che mi avrebbe portata direttamente alla stazione di Nova Gorica. Entrai nell'unico bar aperto che trovai, al bancone del quale una vecchietta minuta e dai capelli bianchi fumava, imperturbabile. Non accennò neanche a spegnere la sigaretta quando mi vide entrare, e rispose a tutte le mie domande con la disponibilità tipica dei vecchi che non vedono l'ora di incontrare qualcuno con cui parlare. Mentre mi stappava una bottiglietta di succo alla pesca, mi raccontò che ci sono ben due università a Gorizia, e che sono anche parecchio buone, e la sera qui è pieno di giovani, c'è un sacco di vita. Dopo qualche minuto, vidi l'autobus arrivare dall'altro lato della piazza; salutai la vecchietta, la ringraziai, e la lasciai alla sua sigaretta, mentre mi chiedevo, non senza una nota di scetticismo, chissà in cosa consistesse, questa vita.
Passai la frontiera e neanche me ne accorsi: nessuno mi controllò i documenti, nessuno fermò il bus, e, nonostante non mi fossi staccata un solo secondo dal finestrino, non vidi neanche un solo cartello che annunciasse che l'Italia finiva qui, e che di fronte a noi ormai si stendeva la verde Slovenia, quasi come se l'una fosse la continuazione dell'altra, e pensai, per l'ennesima volta nella mia vita, che in realtà i confini non sono altro che delle convenzioni, che il passaggio da una nazione all'altra non è che un lento divenire, un passaggio lungo e graduale, e che le guerre di confine sono in realtà qualcosa di abbastanza insensato. Voglio dire, capisco le guerre, per esempio, tra i paesi islamici e i paesi occidentali, sono talmente lontani da non avere nulla in comune e da non capire nulla gli uni della cultura degli altri, ma tra nazioni vicine è come fare una guerra con i propri fratelli. E, per quanto ci si possa odiare tra fratelli, e litigare, e avere idee diverse, il sangue che scorre è sempre lo stesso, e anche le terre che si coltivano, e i panorami che si ammirano, e la luna che si guarda, la notte, abbracciati alla propria donna. Pensavo a tutto questo, mentre salivo su uno dei coloratissimi trenini della Slovenske Železnice che mi avrebbe portato a Bled, prima tappa di questo viaggio che, ne ero sicura, mi avrebbe riservato un sacco di sorprese.


La Slovenia mi è sempre piaciuta, fin dalla prima volta che la visitai, sei mesi prima, a gennaio, con una mia carissima amica. Ci eravamo prese qualche giorno di vacanza e partimmo in pullman per Lubiana, piccola e magica capitale che sembra uscita da un libro di fiabe pieno di principi, principesse e draghi. Non a caso, infatti, il simbolo della città è il drago, incontrato e sconfitto, secondo la leggenda, dall'eroe greco Giasone e dai suoi Argonauti sulla via di casa dopo aver trovato il Vello d'Oro. Un'altra curiosità è il nome della città, la provenienza del quale ha diverse versioni; secondo alcuni, il nome deriverebbe dal latino Aluviana, nome che dovrebbe rimandare a una grande inondazione che devastò la città in epoche antiche. Secondo altri bisogna ricondursi alla parola Laubach, che significa “palude” (in tedesco, infatti, la città viene ancora chiamata Laibach). Ma la versione più poetica e più interessante, secondo me, prende le sue origini dalla lingua slava: infatta, Lubiana ha la stessa radice della parola “luba”, che vuol dire “amore”. Letteralmente, Lubiana significherebbe, secondo questa versione, “l'amata”. E chi non vorrebbe vivere in una città con questo nome?
Già solo dal numero di versioni della provenienza del nome della capitale, ci si accorge di come la Slovenia sia situata in un punto realmente strategico: è un crocevia tra Italia, l'ex impero Austro-Ungarico e la ex Yugoslavia, e come tale non può non aver subito influenze da tutte e tre le parti. Infatti, pur appartenendo al gruppo dei Paesi Baltici, si discosta visibilmente dai suoi fratelli più a sud. Piena del classico pragmatismo austriaco, è stata l'unica nazione a non perdersi in chiacchiere nazionalistiche: fu la prima ad ottenere l'indipendenza dalla Yugoslavia con una guerra durata appena dieci giorni, e ad entrare a far parte, nel 2004, dell'Unione Europea.
Mentre le foreste e le campagne sfrecciano dietro il mio finestrino, ripenso a quel viaggio di sei mesi prima,  soprattutto ad Andrej, l'uomo che ci ospitò nella sua grande casa poco fuori Lubiana. “Da quando mia moglie se n'è andata portando via anche i bambini ho voluto riempirla con gente giovane e interessante. È per questo che mi sono iscritto a Couchsurfing,” ci rivelò, stringendo un bicchiere del vino romagnolo che gli portammo come regalo. “Per sentirmi un po' meno solo,” aggiunse. Io e la mia amica non potevamo chiedere di meglio: scoprimmo che Andrej è non solo un ottimo padrone di casa, ma anche una preparatissima guida turistica, appassionato di architettura e innamorato fino alle ossa della sua città. La prima sera ci prelevò in macchina dalla stazione e ci portò a fare un giro panoramico, fermandosi qui e lì per darci qualche informazione storico-culturale o per raccontare qualche curioso aneddoto. Ci parlò dell'architetto Jože Plečnik, che rivoluzionò l'urbanistica della città con progetti azzardati e innovativi, ci parlò dell'assedio della città durante la guerra d'indipendenza, ma soprattutto ci parlò del suo popolo, un popolo dalla fierezza slava, la precisione e la laboriosità austriache e la giocosità mediterranea. Me lo ricordo come fosse ieri, con le gote rosse dal vino, le mani aperte come per abbracciare tutti i presenti, in piedi di fronte a noi a recitare a memoria l'inno nazionale sloveno, scritto dal loro principale poeta, France Prešeren, raffigurato anche sulle monete da due euro. “E' l'unico inno al mondo,” ci spiegò, “che non parla della supremazia del proprio Paese sul resto del mondo, che non parla di guerre,  l'unico inno che non smerda i propri vicini, ma che, al contrario, li invita ad unirsi in una pace mondiale, felice, serena: Vivano tutti i popoli/ che anelano al giorno/ in cui la discordia verrà sradicata dal mondo/ ed in cui ogni nostro connazionale/ sarà libero,/ ed in cui il vicino/ non un diavolo, ma sarà un amico!”. Rimasi impressionata dalla saggezza e dal coraggio di quella piccola nazione, che, infischiandosene di tutti i conflitti ancora in corso tra i propri vicini, ha saputo imbracciare la via della pace, così, sembrerebbe, ovvia, eppure così difficile da raggiungere in tutte quelle nazioni che noi definiamo “civilizzate”. “Pensa,” continuò Andrej, “l'inno in realtà è una poesia di  Prešeren che si intitola “Brindisi”, e che inizia così: Amici! Le viti/ ci hanno fruttato del dolce vino/ che ci ravviva le vene/ e ci schiarisce il cuore e l'occhio/ e cancella/ tutte le preoccupazioni/ rinnovando la speranza nel petto affranto! Vi rendete conto? Il nostro inno è una poesia che parla dell'ebrezza del vino.”



(to be continued…)

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