Scorre l'aria, scorre, lungo le mie
braccia, e le gambe, accarezza la mia faccia, scorre sulle guance,
sui miei occhi aperti e ciechi, scorre l'aria, tiepida ovatta, acqua
di rubinetto, morbida seta, e si lascia andare dietro di me, mentre i
vorticanti pedali della mia bicicletta – Betty, la mia bicicletta
si chiama Betty – continuano a girare, irrefrenabili, spericolati,
sui sanpietrini di via Farini – ricordi, ricordi, che meraviglia
scoprire quella strada, con quel suo nome così familiare? Girano i
pedali, girano, facendomi saltellare sulla strada sconquassata, a
ritmo di quella stecca metallica che sbatacchia sul parafango, legata
alla meglio con del fil di ferro, girano i pedali, da soli girano,
quasi fossero loro a muovere le mie gambe e non il contrario, una
forza proveniente da sotto, dal bollente sottosuolo, risalendo
attraverso il rovente asfalto, fa il giro dalle ruote, dalla gomma
sporca e consumata, su per lo scheletro, per la vernice scrostata,
per la ruggine sul manubrio, e poi giù fino ai pedali, attraverso le
ciabatte, attraverso i calli arancioni, dentro la pelle, dentro i
muscoli, dentro le ossa, è il mondo che mi spinge, il mondo che mi
guida, il mondo che fa girare i miei pedali – io non c'entro
niente, non volevo, davvero, io sono innocente – mentre l'aria
scorre, consolando la mia fronte surriscaldata e il labbro superiore
imperlato di gocce di sudore. Ad un tratto – il suono di un
cucchiaino che tocca il piattino esce dall'informe nuvola esterna al
mio corpo, trafigge una dietro l'altra le distanze del mio spazio
prossemico e colpisce i miei timpani, così preciso, diretto, pulito,
isolato, come ermetizzato dalla restante afosa confusione del bar
all'angolo a destra, dove voci sudate si mescolano al pigro ronzio di
un ventilatore giallastro, e bariste disilluse preparano
macchinalmente caffè e cappuccini con sorrisi finti come maschere
distrattamente disegnate in faccia. Ah, Marcel, siate maledetti, tu e
le tue
madeleine!
Il manubrio scivola per un attimo dal
preciso e rettilineo movimento, sbando quasi impercettibilmente a
sinistra – come se quel suono fosse denso di forza e di violenza,
una violenza sottile e pungente, come un ago. Tesoro mio, cosa ti sta
succedendo? Perché la testa gira, perché il cuore batte così
forte? Perché, in questo caldo pomeriggio di fine giugno, non
sorridi alla fine degli esami, e a un'estate in libertà, e a una
vita giovane e forte, piena di novità e cambiamenti, e perché
invece ti lasci trascinare da questa nebbia appiccicaticcia di
sospiri e nostalgia, perché? Oh, Samuel, come si cura il battiburro
di parole stantie nel cuore?
Io, e la mia indipendenza, io, e il mio
mondo immaginario, fatto di dettagli, di pieghe della stoffa sugli
abiti, di crepe sui muri, di visi sconosciuti, di canzoni
canticchiate al vento, di poesie scarabocchiate sulla moleskine, di
passeggiate solitarie, di libri, di occhi stanchi, io, io, di nuovo
io.
E' che son sola, mamma, tanto sola, e
ogni tanto aspetto, con rassegnato spirito di sacrificio, di
impazzirne.
Clemente, dimmi, ma sii sincero: verrà,
sei sicuro, verrà, se resisto?
(luglio 2012)
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