Friday, December 14, 2012

Bus numero quarantaquattro.

I tavolini che occupavano illegalmente metà del marciapiede fuori dalla porta d'ingresso del bar si trovavano proprio di fronte alla fermata dell'autobus, che, a quell'ora, era deserta, così come lo era, stranamente, la strada. Seduta a uno di quei tavolini, lei, noncurante della leggera pioggerellina che penetrava dalle fessure in mezzo ai gazebo vecchi e instabili, fumava. Lui, seduto un po' più in là, leggeva un libro di Garcia Marquez. Le tazze di caffè erano state già finite da un pezzo, però nessuno era venuto né a portarle via né a chiedere se i lorsignori volevano dell'altro, così, non avendo di meglio da fare, ne approfittarono per restare un altro po' lì. Lei tirò fuori dalla borsetta il pacchetto di sigarette, lui dalla valigetta il libro, e si immersero ognuno nella propria attività preferita.
A Roma il tempo non scorre come nelle altre città, pensava lei. A Roma il tempo non passa, ma resta, si stratifica, si accalca, gli anni si pestano a vicenda i piedi come i lavoratori che sovraffollano i treni della metropolitana la mattina alle otto meno un quarto, si respirano addosso, sentono l'odore l'uno dell'altro, si fondono in una massa incorporea e sudaticcia e si maledicono a vicenda. A Roma il tempo lo puoi sentire sotto le dita, basta passarle sui muri degli edifici, senti quella patina viscida che ti lascia i polpastrelli neri, ed è il tempo, quello, lei lo sapeva. C'è un eccesso di tempo, in questa città, pensava lei, ce n'è sempre stato troppo, una città non può vivere per così tanti secoli, è innaturale, voglio dire, tutte le grandi città del passato sono state rase al suolo prima o poi, ma non Roma, Roma no, Roma è rimasta intatta, chissà per quale voglia divina, e secondo me questo è il miracolo del tempo, perché questo, porca miseria, è l'unico posto al mondo dove il tempo non passa. Non passa mai. È l'unico posto dove il tempo, invece di rincorrerlo, o accumularlo, come fanno i londinesi o i newyorkesi o i berlinesi, bisogna smaltirlo, come le calorie dopo un cenone di Natale. Pensava questo lei, mentre riavvicinava l'accendino alla punta della sigaretta che continuava a spegnersi con le folate di vento che ogni tanto arrivavano e portavano con sé delle gocce di pioggia che, bastarde, si andavano a infilare nell'unico pezzettino di pelle che rimaneva scoperto tra la sciarpa e il cappotto. Era così che lei giustificava il suo stare lì, seduta a quel tavolino, a fumare. Era una giustificazione plausibile, addirittura nobile un pochino, se si pensava che qualcuno tutto quel tempo doveva pur digerirlo, metabolizzarlo, per non far sì che ce ne fosse troppo e che non iniziasse, come qualsiasi cosa lasciata a marcire in cumuli in un angolo, a puzzare. Era una perfetta metabolizzatrice del tempo in eccesso, lei.
Le ultime foglie d'autunno si impastavano nelle pozzanghere di fango in poltiglie marroni e scivolose, e le luci delle vetrine addobbate a Natale si riflettevano nelle migliaia di gocce che imperlinavano i finestrini delle Smart parcheggiate di sbieco sul marciapiede opposto. Faceva freddo, ma lei cercava di non farci caso, stringendosi in quel cappotto che non era vintage, come pensava qualcuno, ma era vecchio per davvero.
“Cos'è che leggi?”
“Sempre lo stesso.”
“Quella roba sulla solitudine?”

“Si.”
“Come se non ce ne fosse abbastanza nel mondo reale.”
Lui tirò un profondo sospiro, ma non rispose.
“Come se ce ne fosse bisogno di altra,” continuò lei.
“Mi fai leggere in pace cortesemente?”
Lei abbassò la testa. La sigaretta si era spenta di nuovo. Lei la gettò per terra.
Un autobus si avvicinò alla fermata. L'autista aprì le porte, anche se non si capì perché, visto che nessuno scese e nessuno salì. Per qualche istante, rimasero così: la porta anteriore dell'autobus aperta a soli due metri da lei, l'autista che la guardava con la testa mezza girata, come a volerla invitare a salire, i passeggeri curiosi o spazientiti della sosta non necessaria, e lei, seduta a gambe incrociate nel suo cappotto consunto, un'aria di finta indifferenza dipinta sul volto con l'abbondante make-up. Poi, tutto tornò normale: le sembrò di vedere l'autista stringersi quasi impercettibilmente nelle spalle, chiudere le porte e ripartire. Fece appena in tempo a vedere, sul bordo dell'autobus, la scritta a lettere gialle luminose: era il quarantaquattro, in direzione Divino Amore.
Involontariamente, si morse il labbro. Lui girò una pagina, indifferente: non si era accorto di nulla. Il tempo continuava ad accumularsi, e lei si chiese, per la prima volta in tutta la sua vita, per quanto ancora sarebbe riuscita a farlo passare attraverso di sé prima di impazzire.

2 comments:

  1. Che dire.... è incredibile,la mia città adorata,l'autobus che da me non fa fermate e mille sfumature familiari. Bello =)

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