Mi immagino già le vostre sopracciglia
aggrottate, la faccia contratta in una smorfia diffidente, o, al
contrario, un risolino di beffa, o un viso compiaciuto da quella che
può sembrare una battuta audace, spiritosa. Beh, se foste del
lettori attenti, vi sareste accorti che la storia che vi sto narrando
è accaduta suppergiù il ventisette o il ventotto di dicembre, e
qualsiasi persona ben acculturata sa perfettamente che in quelle date
(dagli ultimi dell’anno ai primi di gennaio) spesso capitano cose
che la maggior parte di voi definirebbe eventi paranormali, ma che io
preferisco chiamare magie.
Dunque, tornando a noi. Quella mattina
avevo puntato la mia sveglia alle otto e mezza, non perché avessi
chissà quale commissione da sbrigare, ma semplicemente perché
volevo sfruttare ogni singolo minuto di quei giorni di festa, per
riempire l’animo fino all’ultimo spazio disponibile di
quell’atmosfera gaia e dolce che, stranamente, aleggia nell’aria
solo a Natale. Infatti, sarà una mia suggestione, oppure
un’illusione ben impiantata da quando ero bambina (ma non credo), però ogni anno, con l’avvicinarsi dell’inverno,
percepisco con ogni mia cellula sensitiva l’avvicinarsi anche di
un’ondata di bontà che, rallegrando gli animi, aumenta i sorrisi
e, forse, fa anche rallentare l’apparizione delle rughe. Il Natale
per me si è sempre associato alla famiglia, allo stare tutti insieme
a gustare i dolci della nonna, o a riscaldarsi la sera vicino al
caminetto, o ancora all’uscire nelle strette stradine di quel
piccolo paesino sperduto ad annusare l’odore di legna bruciata
misto al profumo del pane cotto in casa, e poi sbucare da quelle
stradine sul corso, con le sue palme alte e ritte, agghindate da
centinaia di lucine colorate… Il Natale mi ha sempre dato alla
testa. Non c’entrano i regali, non c’entra il fatto che si è in
vacanza e si può stare in panciolle anche tutto il giorno, no, tutto
questo non c’entra. È il ritrovo che mi è sempre piaciuto,
quell’intima comunione che avvolge amici e parenti solitamente
lontani, disseminati dalla vita ognuno in un angolo del mondo
diverso, avvolti solo per pochi giorni dal dimenticato e ora
finalmente riscoperto senso di pace e di completezza per avere delle
persone che, nonostante tutte le difficoltà e le avversità
dell’esistenza umana, ci saranno sempre vicine. Ma dovete scusarmi,
io sono molto prolissa e mi dimentico che voi siete ancora in attesa,
chi con curiosità e chi no, di ascoltare la mia storia.
Dunque, com’è prevedibile, la sveglia suonò alle otto e mezza precise, ma io allungai la mano da sotto le coperte, la spensi e, girandomi sull’altro fianco, mi riaddormentai.
Dopo di ciò, feci una serie di sogni.
Sognai dapprima un’enorme torta a forma di scarpa, attorno alla
quale una decina di ippopotami cantavano, tenendosi per mano (o
meglio, per zampa), delle canzoni per bambini. Ma questo, a dire il
vero, non c’entra con la mia storia, e ve l’ho raccontato solo
per sfizio. Quello che c’entra è il sogno che feci dopo, che è il
seguente:
Mi trovavo in mezzo a un bosco verde,
con l’erba bassa, quasi inesistente, ma fitta, come in un campo da
golf. In compenso, gli alberi erano altissimi – non mi ricordo se
erano querce o sequoie, ma in ogni caso erano talmente alti che le
punte scomparivano lontano lontano nel cielo, e sembrava quasi che si
fondessero con le nuvole. C’era un gruppo di gente, se non sbaglio
erano dei manifestanti (devo dire di essere rimasta molto
impressionata dagli scontri avvenuti in quel periodo durante le
manifestazioni studentesche, e deve essere stato questo ad aver
influenzato il mio sogno), e io ero con loro; a un certo punto arrivò
un camioncino della polizia. Senza nemmeno fermarsi, aprirono la
porticina di dietro, dalla quale sbucò un gruppo di pastori tedeschi
che si avventò sulla folla. Il panico iniziò a disseminarsi a
macchia d’olio. Spaventata, mi misi a correre in mezzo agli alberi,
cercando di sfuggire a una bestia ringhiante e abbaiante che mi stava
inseguendo. Ero agli stremi delle mie forze; come spesso capita nei
sogni, nonostante cercassi di mettercela tutta, non riuscivo ad
essere abbastanza veloce. I piedi sembravano riempiti di piombo, e
ogni movimento mi costava una fatica e un dolore allucinanti. Il cane
mi aveva quasi raggiunta; sentivo il suo alitare e gli schizzi della
sua bava sulla gamba: ancora un salto e mi avrebbe sbranata. Allora
feci un ultimo disperato tentativo: feci un salto in avanti con tutte
le forze che mi restavano e agitai il più forte possibile le
braccia, come se dovessi nuotare. Il trucco funzionò, e spiccai il
volo proprio nel momento quando il pastore tedesco chiuse le sue
fauci a tenaglia sul punto dove un secondo prima c’era la mia
coscia. Nuotando a rana (è l’unico modo di nuotare che mi riesce),
presi quota, lasciando il cane furioso ad abbaiare da sotto, prima di
tornare, deluso e con la coda fra le gambe, dai propri padroni.
Subito mi rallegrai: oltre ad essermi salvata la vita, ero riuscita
anche a volare, cosa che a me piace tantissimo. Mi divertii per un
po’ a fare piroette in mezzo ai tronchi possenti; poi, mi fermai a
riposare su un ramo spoglio, per riprendere le forze. Volevo arrivare
fin sopra gli alberi, e siccome, come ho già detto, erano talmente
alti che non si vedevano le punte, doveva essere un’impresa non
facile. Dopo un po’, spiccai di nuovo il volo. La salita fu lunga e
faticosa, i muscoli erano tesi e dolevano micidialmente, sembrava
stessero gridando “Basta! Non ce la facciamo più!”. Finalmente,
iniziai ad intravedere in mezzo al fogliame qualcosa di azzurro. “Il
cielo!”, pensai. Feci un ultimo sforzo, agitando furiosamente le
braccia, passando in mezzo ai rami intrecciati – era proprio vero
che le cime si fondevano, ma non col cielo, bensì tra di loro – e,
improvvisamente, andai a sbattere con la testa contro il soffitto.
Mi svegliai di colpo. Guardai
l’orologio: erano le dieci. Mi alzai leggermente scombussolata,
senza capirne inizialmente il motivo. Poi mi ricordai il sogno, ma
invece di rimanere turbata scoppiai a ridere. Aprii le imposte – il
sole inondò la cameretta, e sembrava talmente forte dopo il buio del
sonno, che dovetti mettere una mano sopra gli occhi a mo’ di
visiera. Scesi in cucina, avvolta dalla mia calda vestaglia, e
iniziai a preparare il caffé.
Presi la macchinetta da due tazze,
volendo prepararne un po’ anche per mio nonno. Alla radio suonavano
le tipiche canzoncine natalizie che ci ripropongono, di anno in anno,
senza cambiamenti. Allungai volutamente i miei gesti, rendendoli
quasi teatrali, provandoli, gustandoli, traendo da ognuno di essi dei
veri e propri piaceri, assaporando la sensazione di certezza e
sicurezza che mi venivano da quella casa, da quel caffé, da quelle
canzoncine alla radio – tutte cose che rimarranno, per quanto sarà
loro possibile, immutabili, o che per lo meno sono rimaste immutabili
per i primi diciannove anni della mia vita, rappresentando per me un
qualcosa di solido, di affidabile, quasi un membro della mia
famiglia.
Dalla mensola vicino la finestra presi
il barattolo dello zucchero, non senza averci riflettuto un attimo
(da quando, all’età di sei o sette anni, confusi i barattoli,
mangiandomi un cucchiaio intero di sale, mi soffermo sempre a
controllare di aver preso quello giusto: il sale sta a sinistra e lo
zucchero a destra). Tolsi il coperchio, ma subito gettai un grido e
feci cadere il barattolo a terra: la ceramica si ruppe e tutto il
contenuto si disseminò per la cucina. Come vi avevo già anticipato
all’inizio, quello che trovai lì dentro ero io stessa. “No, è
impossibile,” pensai. “Sarà uno scarafaggio, o un piccolo topo…
Una cavalletta? Sto ancora dormendo in piedi…”
E invece no. Dalla montagnola di
zucchero riemerse, sputacchiando granuli bianchi, una creatura
identica a me in tutti i particolari, ma alta solo tre, massimo
quattro centimetri.
“E tu chi diamine sei?!”, domandai
con voce stridula.
“Oltre che cieca, pure isterica,”
disse con voce imbronciata la Piccola Me. “Ci potevo rimettere la
pelle, lo sai? E comunque, che me lo chiedi a fare? Lo sai benissimo
che sono te. Buttarmi a terra dentro quel barattolo di ceramica da
tale altezza, tse! Roba da matti!”
“Tu… sei me?!”
“E chi sennò, Babbo Natale?”
“Mi sarei meravigliata di meno a
vedermi sbucare davanti Babbo Natale, guarda…”, mormorai con un
fil di voce, mentre mi abbassavo sulle ginocchia per osservare da più
vicino quel piccolo esserino.
“Sempre così, noi Miniature veniamo
sempre discriminate!” si imbronciò ancora di più lei. “Quel
vecchio è solo un manipolatore, ha catturato l’attenzione di tutto
il mondo e noi siamo costretti a rimanere nell’ombra!”
“Perché, Babbo Natale… esiste?!”
domandai, scioccata, con aria patetica.
“Ma certo, altrimenti non te l’avrei
nominato, no? Beh, ora pulisci questo disastro che hai combinato e
nascondimi. Sento dei passi, e nessuno oltre a te mi deve vedere.”
“Vieni qui, nella tasca della mia
vestaglia. Promettimi però che dopo mi spiegherai chi sei e che ci
fai qui.”
”Va bene, te lo prometto.”
”Va bene, te lo prometto.”
La Piccola Me mantenne la promessa, e
dopo, nella mia stanza, al sicuro da orecchie indiscrete, mi raccontò
di un mondo fantastico, fatto di sogni.
“Se stai sognando, e sogni di essere
inseguita da un cane, la tua paura non è minore della paura che
proveresti nella realtà in una situazione simile. Dunque come puoi
dire che ciò che accade nella realtà esiste veramente mentre ciò
che accade nel sogno no? Semplicemente si tratta di due mondi
paralleli, e quando dormiamo ci facciamo visita a vicenda.”
“Quindi tu ora… stai
sognando?”
”Esatto. Ovviamente voi umani siete abituati a pensare al vostro mondo come al mondo della realtà e al nostro come al mondo dei sogni; noi, dal nostro punto di vista, facciamo lo stesso. Perciò io ora, trovandomi qui con te, sto sognando, mentre tu stai vivendo la realtà. Stanotte però, quando sei stata inseguita da quel cane, era il contrario.”
”Esatto. Ovviamente voi umani siete abituati a pensare al vostro mondo come al mondo della realtà e al nostro come al mondo dei sogni; noi, dal nostro punto di vista, facciamo lo stesso. Perciò io ora, trovandomi qui con te, sto sognando, mentre tu stai vivendo la realtà. Stanotte però, quando sei stata inseguita da quel cane, era il contrario.”
“Come fai a sapere del mio sogno?”
“C’ero anch’io. Ti ho vista. La
visione di una Grande Me mi ha meravigliata, ed è per questo che ora
sono qui.”
”E perché io non ti ho vista?”
”L’avevo detto io che sei cieca…”, disse la Piccola Me, sbuffando.
”E perché io non ti ho vista?”
”L’avevo detto io che sei cieca…”, disse la Piccola Me, sbuffando.
“E perché possiamo comunicare solo
quando uno dei due dorme?”
”Il passaggio da un mondo all’altro è consentito dalla particolare attività cerebrale, che si manifesta solo durante il sonno.”
”Il passaggio da un mondo all’altro è consentito dalla particolare attività cerebrale, che si manifesta solo durante il sonno.”
Rimasi in silenzio, sconvolta, a
pensare.
“Beh, non sei contenta di avermi
qui?”, chiese con un sorrisone la Piccola Me. Era impressionante
come passasse da uno stato d’animo all’altro in pochissimo tempo,
cambiando l’espressione arrabbiata e scontrosa con un sorriso
sincero e amichevole. Era proprio… proprio… come me.
“Certo che sono contenta, scherzi? Mi
devi solo dare un attimo di tempo per metabolizzare la notizia…”
“Okay.”
Per un paio di secondi, nessuno parlò.
“Fatto?”, domandò lei.
“Ma sei quasi più impaziente di me!
Si, d’accordo, fatto.”
Passammo tutte le vacanze insieme. Nel
sogno, si sa, il tempo scorre in maniera diversa, e lei poté restare
con me per quasi dieci giorni. Furono i giorni più magici della mia
vita.
“Deve essere stupendo vivere nel
mondo dei sogni… Quasi ti invidio, sai?” le dissi una volta.
“Puoi fare di tutto, persino volare!”
“Non è tutto poi rose e fiori… Un
mondo senza limiti è un mondo bello finché le cose che succedono
sono belle. Ma se incontri un Incubo, diventa una battaglia senza
regole, dove tutto è concesso. E non sempre questo ha un lieto
fine.”
“Voi abitanti dei sogni conoscete la
morte?”
“Ripeto, noi non abbiamo limiti
precisi come li avete voi. Così come l’assenza di limiti per voi
sembra surreale, così per noi è la presenza degli stessi. Si,
possiamo anche morire, ma la cosa non è mai definitiva. Possiamo
benissimo rinascere il giorno dopo.”
“Ma se la comunicazione tra i due
mondi è cosa comune, perché gli umani non ne parlano? Perché non
viene considerato normale?”
“Ogni tanto i vostri stessi limiti vi
soffocano… Accettate solo ciò che ritenete normale, e sono poche
le persone che sono disposte a far entrare nella propria mente una
tale conoscenza. Ogni tanto siete dei veri ottusi!”
“E come fate a camuffarvi, a non
farvi notare? Noi umani i sogni non riusciamo a controllarli…”
“Ma ti devo spiegare proprio tutto?
Te l’ho detto migliaia di volte: da noi i limiti non esistono.
Non-e-sis-to-no. Chiaro? Nemmeno noi riusciamo a controllarci nella
nostra realtà. È per questo che ci piace sognare: così almeno
siamo coscienti delle nostre azioni. E siamo abbastanza intelligenti
da fingerci oggetti della vostra quotidianità, quando l’aspetto
fisico ce lo permette.”
“È l’esatto contrario di quello
che accade a noi.”
“Oh, brava. Finalmente l’hai
capito.”
Io e la Piccola Me riuscimmo in quei
pochi giorni a instaurare un rapporto particolarissimo: era, da una
parte, come stare con una persona che conosci da sempre, e
dall’altra, come scoprire una dimensione tutta nuova. Conoscendo
lei, ho automaticamente conosciuto me stessa; peccato che mi ci sia
voluta per forza un’estraniazione fisica di me per farlo. Chissà
se per lei è stato lo stesso, se lei, dopo quest’esperienza, ha
iniziato ad apprezzarsi di più o, al contrario, se è
rimasta delusa. Stavo per chiederglielo una mattina – gennaio era
già entrato vivacemente nelle case, con le sue promesse e la sua
apparente aria di novità, anche se gli anni finiscono e iniziano da
sempre, ma l’uomo ancora non riesce ad abituarsi, e continua a
vedere la propria esistenza attraverso i limitanti filtri del Tempo –
la sveglia suonò alle otto e mezza precise, ma io allungai la mano
da sotto le coperte, la spensi, mi girai sull’altro fianco e mi
riaddormentai, promettendomi di chiedere tutto alla Piccola Me quando
mi sarei svegliata. Quando però aprii gli occhi (erano le dieci), il
piccolo letto che avevo allestito per lei con degli
stracci sul comò era vuoto. Preoccupata, iniziai a cercare
dappertutto, prima nella mia camera, poi nel resto della casa, e
infine anche giù in strada, senza rispondere alle domande dei nonni
che non capivano cosa diamine avessi perduto. Temevo che si fosse
cacciata in qualche guaio, o che qualcuno l’avesse vista e lei
fosse stata costretta a nascondersi o a scappare. Così com’ero, in
vestaglia e pantofole, arrivai fino al corso. La gente, incuriosita,
bisbigliava alle mie spalle, ma non me ne curai. Cercai in tutti i
posti dove ero stata con la Piccola Me e dove sapevo che lei si
sarebbe potuta nascondere. Poi, finalmente, mi fermai, esausta, e
volsi uno sguardo alla strada. Degli operai su una scala altissima
stavano togliendo le decorazioni dalle palme. Fu lì che capii tutto.
Natale era finito, e la magia si era consumata da sé. La Piccola Me
era tornata nel suo mondo.
Tornai sui miei passi con la sensazione di aver
perso una parte di me; le lacrime luccicavano sui miei occhi, e il
sole – lo stesso sole che splendeva il giorno che ci eravamo
conosciute, caldo e allegro – vi si rifletteva dentro. Chissà cosa
avrebbe detto lei, vedendomi piangere. “Sei un’ottusa”, ecco,
si, sicuramente avrebbe detto così. Lei, cittadina di un mondo senza
limiti, non poteva certo permettersi di rimanere ingabbiata nella
nostra realtà. “Siete tutti ottusi,” avrebbe detto, “perché
non vedete nulla oltre il vostro naso,” avrebbe detto, “la verità
non è solo quella che riuscite a toccare, mangiare o annusare,”
avrebbe detto, “siete tutti ottusi.”
Si, avrebbe detto proprio così. E io le avrei dato ragione. Mi asciugai le lacrime sulla manica della vestaglia e rientrai in casa. Non la rividi mai più.
(dicembre 2010)
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