Sunday, December 9, 2012

La Piccola Me.

Un giorno – era la fine di dicembre, suppergiù il ventisette o il ventotto, ora non ricordo benissimo la data, in compenso ricordo perfettamente la giornata, oh si, ne ricordo ogni minimo particolare, c’era un sole magnifico nel cielo limpido, immune da qualsiasi tipo di nuvola, e i caldi raggi riscaldavano un poco l’aria ghiacciata di un inverno straordinariamente freddo, e il sole era così bello, così bello, soprattutto dopo tanti giorni di pioggia e nebbia e nebbia e pioggia, così bello, dicevo, che metteva un’allegria immensa, e anch’io ero allegra quel giorno, vedendo la luce abbagliante riflettersi in ogni finestra o specchio che trovava – un giorno (anche se non è giustissimo dire un giorno, come se fosse un giorno qualunque, generico, mentre non lo fu assolutamente), o meglio, quel giorno trovai me stessa dentro il barattolo dello zucchero.

Mi immagino già le vostre sopracciglia aggrottate, la faccia contratta in una smorfia diffidente, o, al contrario, un risolino di beffa, o un viso compiaciuto da quella che può sembrare una battuta audace, spiritosa. Beh, se foste del lettori attenti, vi sareste accorti che la storia che vi sto narrando è accaduta suppergiù il ventisette o il ventotto di dicembre, e qualsiasi persona ben acculturata sa perfettamente che in quelle date (dagli ultimi dell’anno ai primi di gennaio) spesso capitano cose che la maggior parte di voi definirebbe eventi paranormali, ma che io preferisco chiamare magie.
Dunque, tornando a noi. Quella mattina avevo puntato la mia sveglia alle otto e mezza, non perché avessi chissà quale commissione da sbrigare, ma semplicemente perché volevo sfruttare ogni singolo minuto di quei giorni di festa, per riempire l’animo fino all’ultimo spazio disponibile di quell’atmosfera gaia e dolce che, stranamente, aleggia nell’aria solo a Natale. Infatti, sarà una mia suggestione, oppure un’illusione ben impiantata da quando ero bambina (ma non credo), però ogni anno, con l’avvicinarsi dell’inverno, percepisco con ogni mia cellula sensitiva l’avvicinarsi anche di un’ondata di bontà che, rallegrando gli animi, aumenta i sorrisi e, forse, fa anche rallentare l’apparizione delle rughe. Il Natale per me si è sempre associato alla famiglia, allo stare tutti insieme a gustare i dolci della nonna, o a riscaldarsi la sera vicino al caminetto, o ancora all’uscire nelle strette stradine di quel piccolo paesino sperduto ad annusare l’odore di legna bruciata misto al profumo del pane cotto in casa, e poi sbucare da quelle stradine sul corso, con le sue palme alte e ritte, agghindate da centinaia di lucine colorate… Il Natale mi ha sempre dato alla testa. Non c’entrano i regali, non c’entra il fatto che si è in vacanza e si può stare in panciolle anche tutto il giorno, no, tutto questo non c’entra. È il ritrovo che mi è sempre piaciuto, quell’intima comunione che avvolge amici e parenti solitamente lontani, disseminati dalla vita ognuno in un angolo del mondo diverso, avvolti solo per pochi giorni dal dimenticato e ora finalmente riscoperto senso di pace e di completezza per avere delle persone che, nonostante tutte le difficoltà e le avversità dell’esistenza umana, ci saranno sempre vicine. Ma dovete scusarmi, io sono molto prolissa e mi dimentico che voi siete ancora in attesa, chi con curiosità e chi no, di ascoltare la mia storia.

Dunque, com’è prevedibile, la sveglia suonò alle otto e mezza precise, ma io allungai la mano da sotto le coperte, la spensi e, girandomi sull’altro fianco, mi riaddormentai.
Dopo di ciò, feci una serie di sogni. Sognai dapprima un’enorme torta a forma di scarpa, attorno alla quale una decina di ippopotami cantavano, tenendosi per mano (o meglio, per zampa), delle canzoni per bambini. Ma questo, a dire il vero, non c’entra con la mia storia, e ve l’ho raccontato solo per sfizio. Quello che c’entra è il sogno che feci dopo, che è il seguente:
Mi trovavo in mezzo a un bosco verde, con l’erba bassa, quasi inesistente, ma fitta, come in un campo da golf. In compenso, gli alberi erano altissimi – non mi ricordo se erano querce o sequoie, ma in ogni caso erano talmente alti che le punte scomparivano lontano lontano nel cielo, e sembrava quasi che si fondessero con le nuvole. C’era un gruppo di gente, se non sbaglio erano dei manifestanti (devo dire di essere rimasta molto impressionata dagli scontri avvenuti in quel periodo durante le manifestazioni studentesche, e deve essere stato questo ad aver influenzato il mio sogno), e io ero con loro; a un certo punto arrivò un camioncino della polizia. Senza nemmeno fermarsi, aprirono la porticina di dietro, dalla quale sbucò un gruppo di pastori tedeschi che si avventò sulla folla. Il panico iniziò a disseminarsi a macchia d’olio. Spaventata, mi misi a correre in mezzo agli alberi, cercando di sfuggire a una bestia ringhiante e abbaiante che mi stava inseguendo. Ero agli stremi delle mie forze; come spesso capita nei sogni, nonostante cercassi di mettercela tutta, non riuscivo ad essere abbastanza veloce. I piedi sembravano riempiti di piombo, e ogni movimento mi costava una fatica e un dolore allucinanti. Il cane mi aveva quasi raggiunta; sentivo il suo alitare e gli schizzi della sua bava sulla gamba: ancora un salto e mi avrebbe sbranata. Allora feci un ultimo disperato tentativo: feci un salto in avanti con tutte le forze che mi restavano e agitai il più forte possibile le braccia, come se dovessi nuotare. Il trucco funzionò, e spiccai il volo proprio nel momento quando il pastore tedesco chiuse le sue fauci a tenaglia sul punto dove un secondo prima c’era la mia coscia. Nuotando a rana (è l’unico modo di nuotare che mi riesce), presi quota, lasciando il cane furioso ad abbaiare da sotto, prima di tornare, deluso e con la coda fra le gambe, dai propri padroni. Subito mi rallegrai: oltre ad essermi salvata la vita, ero riuscita anche a volare, cosa che a me piace tantissimo. Mi divertii per un po’ a fare piroette in mezzo ai tronchi possenti; poi, mi fermai a riposare su un ramo spoglio, per riprendere le forze. Volevo arrivare fin sopra gli alberi, e siccome, come ho già detto, erano talmente alti che non si vedevano le punte, doveva essere un’impresa non facile. Dopo un po’, spiccai di nuovo il volo. La salita fu lunga e faticosa, i muscoli erano tesi e dolevano micidialmente, sembrava stessero gridando “Basta! Non ce la facciamo più!”. Finalmente, iniziai ad intravedere in mezzo al fogliame qualcosa di azzurro. “Il cielo!”, pensai. Feci un ultimo sforzo, agitando furiosamente le braccia, passando in mezzo ai rami intrecciati – era proprio vero che le cime si fondevano, ma non col cielo, bensì tra di loro – e, improvvisamente, andai a sbattere con la testa contro il soffitto.

Mi svegliai di colpo. Guardai l’orologio: erano le dieci. Mi alzai leggermente scombussolata, senza capirne inizialmente il motivo. Poi mi ricordai il sogno, ma invece di rimanere turbata scoppiai a ridere. Aprii le imposte – il sole inondò la cameretta, e sembrava talmente forte dopo il buio del sonno, che dovetti mettere una mano sopra gli occhi a mo’ di visiera. Scesi in cucina, avvolta dalla mia calda vestaglia, e iniziai a preparare il caffé.
Presi la macchinetta da due tazze, volendo prepararne un po’ anche per mio nonno. Alla radio suonavano le tipiche canzoncine natalizie che ci ripropongono, di anno in anno, senza cambiamenti. Allungai volutamente i miei gesti, rendendoli quasi teatrali, provandoli, gustandoli, traendo da ognuno di essi dei veri e propri piaceri, assaporando la sensazione di certezza e sicurezza che mi venivano da quella casa, da quel caffé, da quelle canzoncine alla radio – tutte cose che rimarranno, per quanto sarà loro possibile, immutabili, o che per lo meno sono rimaste immutabili per i primi diciannove anni della mia vita, rappresentando per me un qualcosa di solido, di affidabile, quasi un membro della mia famiglia.
Dalla mensola vicino la finestra presi il barattolo dello zucchero, non senza averci riflettuto un attimo (da quando, all’età di sei o sette anni, confusi i barattoli, mangiandomi un cucchiaio intero di sale, mi soffermo sempre a controllare di aver preso quello giusto: il sale sta a sinistra e lo zucchero a destra). Tolsi il coperchio, ma subito gettai un grido e feci cadere il barattolo a terra: la ceramica si ruppe e tutto il contenuto si disseminò per la cucina. Come vi avevo già anticipato all’inizio, quello che trovai lì dentro ero io stessa. “No, è impossibile,” pensai. “Sarà uno scarafaggio, o un piccolo topo… Una cavalletta? Sto ancora dormendo in piedi…”
E invece no. Dalla montagnola di zucchero riemerse, sputacchiando granuli bianchi, una creatura identica a me in tutti i particolari, ma alta solo tre, massimo quattro centimetri.
“E tu chi diamine sei?!”, domandai con voce stridula.
“Oltre che cieca, pure isterica,” disse con voce imbronciata la Piccola Me. “Ci potevo rimettere la pelle, lo sai? E comunque, che me lo chiedi a fare? Lo sai benissimo che sono te. Buttarmi a terra dentro quel barattolo di ceramica da tale altezza, tse! Roba da matti!”
“Tu… sei me?!”
“E chi sennò, Babbo Natale?”
“Mi sarei meravigliata di meno a vedermi sbucare davanti Babbo Natale, guarda…”, mormorai con un fil di voce, mentre mi abbassavo sulle ginocchia per osservare da più vicino quel piccolo esserino.
“Sempre così, noi Miniature veniamo sempre discriminate!” si imbronciò ancora di più lei. “Quel vecchio è solo un manipolatore, ha catturato l’attenzione di tutto il mondo e noi siamo costretti a rimanere nell’ombra!”
“Perché, Babbo Natale… esiste?!” domandai, scioccata, con aria patetica.
“Ma certo, altrimenti non te l’avrei nominato, no? Beh, ora pulisci questo disastro che hai combinato e nascondimi. Sento dei passi, e nessuno oltre a te mi deve vedere.”
“Vieni qui, nella tasca della mia vestaglia. Promettimi però che dopo mi spiegherai chi sei e che ci fai qui.”
”Va bene, te lo prometto.”

La Piccola Me mantenne la promessa, e dopo, nella mia stanza, al sicuro da orecchie indiscrete, mi raccontò di un mondo fantastico, fatto di sogni.
“Se stai sognando, e sogni di essere inseguita da un cane, la tua paura non è minore della paura che proveresti nella realtà in una situazione simile. Dunque come puoi dire che ciò che accade nella realtà esiste veramente mentre ciò che accade nel sogno no? Semplicemente si tratta di due mondi paralleli, e quando dormiamo ci facciamo visita a vicenda.”
“Quindi tu ora… stai sognando?”
”Esatto. Ovviamente voi umani siete abituati a pensare al vostro mondo come al mondo della realtà e al nostro come al mondo dei sogni; noi, dal nostro punto di vista, facciamo lo stesso. Perciò io ora, trovandomi qui con te, sto sognando, mentre tu stai vivendo la realtà. Stanotte però, quando sei stata inseguita da quel cane, era il contrario.”
“Come fai a sapere del mio sogno?”
“C’ero anch’io. Ti ho vista. La visione di una Grande Me mi ha meravigliata, ed è per questo che ora sono qui.”
”E perché io non ti ho vista?”
”L’avevo detto io che sei cieca…”, disse la Piccola Me, sbuffando.
“E perché possiamo comunicare solo quando uno dei due dorme?”
”Il passaggio da un mondo all’altro è consentito dalla particolare attività cerebrale, che si manifesta solo durante il sonno.”
Rimasi in silenzio, sconvolta, a pensare.
“Beh, non sei contenta di avermi qui?”, chiese con un sorrisone la Piccola Me. Era impressionante come passasse da uno stato d’animo all’altro in pochissimo tempo, cambiando l’espressione arrabbiata e scontrosa con un sorriso sincero e amichevole. Era proprio… proprio… come me.
“Certo che sono contenta, scherzi? Mi devi solo dare un attimo di tempo per metabolizzare la notizia…”
“Okay.”
Per un paio di secondi, nessuno parlò.
“Fatto?”, domandò lei.
“Ma sei quasi più impaziente di me! Si, d’accordo, fatto.”
Passammo tutte le vacanze insieme. Nel sogno, si sa, il tempo scorre in maniera diversa, e lei poté restare con me per quasi dieci giorni. Furono i giorni più magici della mia vita.
“Deve essere stupendo vivere nel mondo dei sogni… Quasi ti invidio, sai?” le dissi una volta. “Puoi fare di tutto, persino volare!”
“Non è tutto poi rose e fiori… Un mondo senza limiti è un mondo bello finché le cose che succedono sono belle. Ma se incontri un Incubo, diventa una battaglia senza regole, dove tutto è concesso. E non sempre questo ha un lieto fine.”
“Voi abitanti dei sogni conoscete la morte?”
“Ripeto, noi non abbiamo limiti precisi come li avete voi. Così come l’assenza di limiti per voi sembra surreale, così per noi è la presenza degli stessi. Si, possiamo anche morire, ma la cosa non è mai definitiva. Possiamo benissimo rinascere il giorno dopo.”
“Ma se la comunicazione tra i due mondi è cosa comune, perché gli umani non ne parlano? Perché non viene considerato normale?”
“Ogni tanto i vostri stessi limiti vi soffocano… Accettate solo ciò che ritenete normale, e sono poche le persone che sono disposte a far entrare nella propria mente una tale conoscenza. Ogni tanto siete dei veri ottusi!”
“E come fate a camuffarvi, a non farvi notare? Noi umani i sogni non riusciamo a controllarli…”
“Ma ti devo spiegare proprio tutto? Te l’ho detto migliaia di volte: da noi i limiti non esistono. Non-e-sis-to-no. Chiaro? Nemmeno noi riusciamo a controllarci nella nostra realtà. È per questo che ci piace sognare: così almeno siamo coscienti delle nostre azioni. E siamo abbastanza intelligenti da fingerci oggetti della vostra quotidianità, quando l’aspetto fisico ce lo permette.”
“È l’esatto contrario di quello che accade a noi.”
“Oh, brava. Finalmente l’hai capito.”

Io e la Piccola Me riuscimmo in quei pochi giorni a instaurare un rapporto particolarissimo: era, da una parte, come stare con una persona che conosci da sempre, e dall’altra, come scoprire una dimensione tutta nuova. Conoscendo lei, ho automaticamente conosciuto me stessa; peccato che mi ci sia voluta per forza un’estraniazione fisica di me per farlo. Chissà se per lei è stato lo stesso, se lei, dopo quest’esperienza, ha iniziato ad apprezzarsi di più o, al contrario, se è rimasta delusa. Stavo per chiederglielo una mattina – gennaio era già entrato vivacemente nelle case, con le sue promesse e la sua apparente aria di novità, anche se gli anni finiscono e iniziano da sempre, ma l’uomo ancora non riesce ad abituarsi, e continua a vedere la propria esistenza attraverso i limitanti filtri del Tempo – la sveglia suonò alle otto e mezza precise, ma io allungai la mano da sotto le coperte, la spensi, mi girai sull’altro fianco e mi riaddormentai, promettendomi di chiedere tutto alla Piccola Me quando mi sarei svegliata. Quando però aprii gli occhi (erano le dieci), il piccolo letto che avevo allestito per lei con degli stracci sul comò era vuoto. Preoccupata, iniziai a cercare dappertutto, prima nella mia camera, poi nel resto della casa, e infine anche giù in strada, senza rispondere alle domande dei nonni che non capivano cosa diamine avessi perduto. Temevo che si fosse cacciata in qualche guaio, o che qualcuno l’avesse vista e lei fosse stata costretta a nascondersi o a scappare. Così com’ero, in vestaglia e pantofole, arrivai fino al corso. La gente, incuriosita, bisbigliava alle mie spalle, ma non me ne curai. Cercai in tutti i posti dove ero stata con la Piccola Me e dove sapevo che lei si sarebbe potuta nascondere. Poi, finalmente, mi fermai, esausta, e volsi uno sguardo alla strada. Degli operai su una scala altissima stavano togliendo le decorazioni dalle palme. Fu lì che capii tutto. Natale era finito, e la magia si era consumata da sé. La Piccola Me era tornata nel suo mondo.

Tornai sui miei passi con la sensazione di aver perso una parte di me; le lacrime luccicavano sui miei occhi, e il sole – lo stesso sole che splendeva il giorno che ci eravamo conosciute, caldo e allegro – vi si rifletteva dentro. Chissà cosa avrebbe detto lei, vedendomi piangere. “Sei un’ottusa”, ecco, si, sicuramente avrebbe detto così. Lei, cittadina di un mondo senza limiti, non poteva certo permettersi di rimanere ingabbiata nella nostra realtà. “Siete tutti ottusi,” avrebbe detto, “perché non vedete nulla oltre il vostro naso,” avrebbe detto, “la verità non è solo quella che riuscite a toccare, mangiare o annusare,” avrebbe detto, “siete tutti ottusi.”
Si, avrebbe detto proprio così. E io le avrei dato ragione. Mi asciugai le lacrime sulla manica della vestaglia e rientrai in casa. Non la rividi mai più.

(dicembre 2010)

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