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Facevano l'amore almeno due volte al
giorno, a volte tre, a volte quattro, ma mai meno di due, salvo i
giorni che lei aveva le sue cose, e non si stancavano mai. Lo
facevano con foga, con passione, facendo cigolare rumorosamente la
vecchia rete del letto, facendo cadere a terra lenzuola e vestiti
appallottolati in un unico mucchio, senza curarsi delle grida
impazienti dei vicini, delle mani che bussavano sulla parete per dire
di smetterla, senza curarsi di abbassare la voce, gridavano il
proprio godere al mondo. L'unica cosa della quale si preoccupavano
era quella di abbassare la tapparella e di spegnere la luce – non
perché avessero paura di essere visti (quante volte lo avevano fatto
in luoghi pubblici?), ma perché a entrambi piaceva farlo al buio, ad
occhi chiusi, senza nulla che distraesse da quel movimento ritmico,
da quello scorrere di mani lungo le schiene, da quello affondare le
lingue uno nella bocca dell'altra. Quando chiudevano gli occhi, e il
corpo nudo di lui si sdraiava sopra il corpo nudo di lei, e la voglia
rigida ed eretta di lui trovava la voglia umida e molliccia di lei, e
si ricongiungevano, corpo nel corpo, anima nell'anima, e lui la
penetrava non per violarla, ma per completarla, ecco, quando questo
succedeva, loro chiudevano gli occhi, perché era così che
riuscivano a dimenticarsi di appartenere a questo mondo, e a questa
vita, e a questi dolori. Facevano l'amore, a volte scopavano, ma per
lo più era un fare l'amore, lento, veloce, di nuovo lento, mani che
scorrono, si serrano su natiche contratte, bocche semi aperte, dita
che attraversano capelli arruffati, di nuovo veloce, di nuovo lento,
un po' più su, un po' più giù, Esiste cosa più bella di questa?,
le sussurrava lui nell'orecchio, e lei, tristemente, pensava, No,
purtroppo no. Non esiste nulla di altrettanto alienante, di
altrettanto eccitante, di altrettanto coinvolgente; di altrettanto
bello, insomma. E allora riprendeva a muovere il bacino, a cercare il
ritmo di lui, ad assecondarlo, a imporre un ritmo proprio, ad
abbandonarsi ai sensi, a quella sensazione di leggerezza, come se
stesse volando su una nuvola, una sensazione che neanche le droghe
riuscivano a darle, che nulla, in realtà, riusciva a darle, una
sensazione di felicità, se così si può dire, o perlomeno quello
era ciò che di più le somigliava, e a sperare, sperare che non
finisse mai.
Poi però finiva, per quanto loro
cercassero di allungarlo, per quanto ormai fossero allenati, e
sapessero i tempi uno dell'altra, e facessero del loro meglio per
ritardare l'orgasmo. Finiva, come ogni cosa è destinata a finire a
questo mondo, e loro lo sapevano. Rimanevano abbracciati per un po',
stretti contro il freddo del mondo, ad ascoltare la pioggia battere
sulla finestra, ad accarezzarsi dolcemente, in silenzio, la mente
vuota. Poi, lui si alzava, andava a prendere la carta igienica, si
puliva, la porgeva a lei e si avvicinava alla finestra. Alzava la
tapparella, spalancava la finestra – lei, al tagliente contatto con
la brezza notturna, recuperava la coperta dal pavimento polveroso e
vi si rifugiava sotto – e si rollava una sigaretta.
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