Tuesday, November 6, 2012

La cosa più bella.


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Facevano l'amore almeno due volte al giorno, a volte tre, a volte quattro, ma mai meno di due, salvo i giorni che lei aveva le sue cose, e non si stancavano mai. Lo facevano con foga, con passione, facendo cigolare rumorosamente la vecchia rete del letto, facendo cadere a terra lenzuola e vestiti appallottolati in un unico mucchio, senza curarsi delle grida impazienti dei vicini, delle mani che bussavano sulla parete per dire di smetterla, senza curarsi di abbassare la voce, gridavano il proprio godere al mondo. L'unica cosa della quale si preoccupavano era quella di abbassare la tapparella e di spegnere la luce – non perché avessero paura di essere visti (quante volte lo avevano fatto in luoghi pubblici?), ma perché a entrambi piaceva farlo al buio, ad occhi chiusi, senza nulla che distraesse da quel movimento ritmico, da quello scorrere di mani lungo le schiene, da quello affondare le lingue uno nella bocca dell'altra. Quando chiudevano gli occhi, e il corpo nudo di lui si sdraiava sopra il corpo nudo di lei, e la voglia rigida ed eretta di lui trovava la voglia umida e molliccia di lei, e si ricongiungevano, corpo nel corpo, anima nell'anima, e lui la penetrava non per violarla, ma per completarla, ecco, quando questo succedeva, loro chiudevano gli occhi, perché era così che riuscivano a dimenticarsi di appartenere a questo mondo, e a questa vita, e a questi dolori. Facevano l'amore, a volte scopavano, ma per lo più era un fare l'amore, lento, veloce, di nuovo lento, mani che scorrono, si serrano su natiche contratte, bocche semi aperte, dita che attraversano capelli arruffati, di nuovo veloce, di nuovo lento, un po' più su, un po' più giù, Esiste cosa più bella di questa?, le sussurrava lui nell'orecchio, e lei, tristemente, pensava, No, purtroppo no. Non esiste nulla di altrettanto alienante, di altrettanto eccitante, di altrettanto coinvolgente; di altrettanto bello, insomma. E allora riprendeva a muovere il bacino, a cercare il ritmo di lui, ad assecondarlo, a imporre un ritmo proprio, ad abbandonarsi ai sensi, a quella sensazione di leggerezza, come se stesse volando su una nuvola, una sensazione che neanche le droghe riuscivano a darle, che nulla, in realtà, riusciva a darle, una sensazione di felicità, se così si può dire, o perlomeno quello era ciò che di più le somigliava, e a sperare, sperare che non finisse mai.
Poi però finiva, per quanto loro cercassero di allungarlo, per quanto ormai fossero allenati, e sapessero i tempi uno dell'altra, e facessero del loro meglio per ritardare l'orgasmo. Finiva, come ogni cosa è destinata a finire a questo mondo, e loro lo sapevano. Rimanevano abbracciati per un po', stretti contro il freddo del mondo, ad ascoltare la pioggia battere sulla finestra, ad accarezzarsi dolcemente, in silenzio, la mente vuota. Poi, lui si alzava, andava a prendere la carta igienica, si puliva, la porgeva a lei e si avvicinava alla finestra. Alzava la tapparella, spalancava la finestra – lei, al tagliente contatto con la brezza notturna, recuperava la coperta dal pavimento polveroso e vi si rifugiava sotto – e si rollava una sigaretta.

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