"Seguimi,"
disse,
prendendomi
per
mano
e
immergendosi
coraggiosamente
nelle
torbide
acque
di
quella
fiumana
umana.
Gente
che
entrava,
gente
che
usciva,
gente
che
rimaneva
saldamente
sul
proprio
posto,
magari
noncurante
di
bloccare
il
passaggio
a
qualcuno
che
doveva
entrare,
a
qualcuno
che
doveva
uscire.
Gente
che
vagava
caoticamente,
senza
nessuna
causa
logica
– o
almeno
così
sembrava
– come
tante
piccole
particelle
di
gas
che
sbattono
tra
di
loro,
rimbalzano
come
palline
da
flipper
e
continuano
il
loro
insensato
movimento
all'infinito.
Eccola,
la
condizione
umana,
pensai,
siamo
un
gas
compresso,
si,
tanti
piccoli
atomi
di
gas
compressi
in
un
ambiente
troppo
piccolo
per
noi,
in
un
ambiente
che
non
rispetta
per
nulla
lo
spazio
vitale
di
ciascuno
di
noi,
un
ambiente
dove
siamo
costretti
a
scontrarci
l'uno
con
l'altro,
magari
tu
quella
persona
lì
non
la
vuoi
proprio
vedere,
ti
sta
sul
cazzo,
e
invece
sei
costretto
a
sbatterci
contro,
prima
o
poi,
magari
invece
non
succederà
mai,
ma
statisticamente
parlando
potrebbe
succedere,
statisticamente
parlando
tutto potrebbe
succedere,
e
allora,
se
non
sei
capace
di
vivere
accettando
(subendo?)
questa
cosa,
vivi
in
perenne
ansia,
di
qualcosa
che
chissà
se
e
quando
accadrà.
Tenevo
salda
la
sua
mano,
per
paura
di
perdermi,
in
quel
posto
fatto
di
corridoi
– in
realtà
sapevo che
era
fatto
di
corridoi,
ma
in
quel
momento
lì
non
si
vedevano,
perché
ogni
singolo
centimetro
quadro
libero
era
occupato
da
una
persona,
ma
la
conoscenza
di
una
cosa
condiziona
la
percezione
di
essa.
Tenevo
salda
la
sua
mano,
mentre
scivolavamo
lungo
muri
altissimi,
mentre
salivamo
scale
ripidissime,
mentre
oltrepassavamo
porte
che
davano
su
altri
corridoi
dai
muri
altissimi
e
altre
scale
ripidissime,
tenevo
salda
la
sua
mano,
per
non
perdermi,
per
non
perderci,
schiacciati
da
una
folla
brulicante,
una
massa
unica,
viva,
incosciente,
come
un'enorme
ameba
informe,
in
grado
di
deformarsi
a
suo
piacere.
Sentivo
la
pressione
di
decine
di
corpi
estranei
sulla
mia
pelle
– braccia,
pance,
schiene,
mani,
seni
strisciavano
su
di
me
senza
ritegno,
senza
permesso,
era
una
sensazione
strana,
come
se
questo
enorme
essere,
questa
ameba,
mi
stesse
abbracciando
(Dio!
Cosa
si
arriva
a
pensare
in
momenti
di
carenza
di
affetto),
mi
stesse
inglobando,
facendomi
sentire
parte
di
qualcosa
in
realtà
a
me
estraneo,
qualcosa
di
cui
non
sapevo
nulla,
un
organismo
composto
da
cellule
sconosciute,
era
strano,
era
piacevole,
ma
faceva
paura,
una
volta
si
sarebbe
detto
che
era
sublime,
è
un
concetto
di
sottomissione,
ed
effettivamente
in
qualche
modo
ero
costretta
a
sottomettermi,
perché
questa
creatura
era
più
forte
di
me,
nonostante
io
contribuissi
con
la
mia
presenza
alla
sua
esistenza
e
alla
sua
potenza
– quindi,
probabilmente,
da
qualche
parte
qualcun
altro
avrà
provato
sensazioni
simili
anche
per
colpa
mia,
si
sarà
sentito
sottomesso
anche da
me,
e
questo
dava
una
sensazione
di
pseudo-potere,
si
può
essere
padroni
e
sudditi
allo
stesso
momento?,
mi
chiedevo,
e
poi
pensavo
che
il
mondo
là
fuori,
oltre
questi
muri
altissimi,
oltre
questi
corridoi
lunghissimi,
era
fatto
esattamente
allo
stesso
modo,
non
cambiava
nulla,
era
solo
infinitamente
più
grande
e
infinitamente
più
incontrollabile.
Poi,
nel
bel
mezzo
delle
mie
riflessioni,
arrivammo
davanti
a
una
porta
con
appesa
la
figura
stilizzata
di
una
donna. "Finalmente,"
pensai.
Due minuti dopo, eravamo già fuori, liberati da pesi inutili. "Andiamo a bere," propose qualcuno. "Andiamo."
(febbraio 2012)
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