Monday, November 5, 2012

L'abbraccio di un'ameba.


"Seguimi," disse, prendendomi per mano e immergendosi coraggiosamente nelle torbide acque di quella fiumana umana. Gente che entrava, gente che usciva, gente che rimaneva saldamente sul proprio posto, magari noncurante di bloccare il passaggio a qualcuno che doveva entrare, a qualcuno che doveva uscire. Gente che vagava caoticamente, senza nessuna causa logicao almeno così sembravacome tante piccole particelle di gas che sbattono tra di loro, rimbalzano come palline da flipper e continuano il loro insensato movimento all'infinito. Eccola, la condizione umana, pensai, siamo un gas compresso, si, tanti piccoli atomi di gas compressi in un ambiente troppo piccolo per noi, in un ambiente che non rispetta per nulla lo spazio vitale di ciascuno di noi, un ambiente dove siamo costretti a scontrarci l'uno con l'altro, magari tu quella persona non la vuoi proprio vedere, ti sta sul cazzo, e invece sei costretto a sbatterci contro, prima o poi, magari invece non succederà mai, ma statisticamente parlando potrebbe succedere, statisticamente parlando tutto potrebbe succedere, e allora, se non sei capace di vivere accettando (subendo?) questa cosa, vivi in perenne ansia, di qualcosa che chissà se e quando accadrà.
Tenevo salda la sua mano, per paura di perdermi, in quel posto fatto di corridoiin realtà sapevo che era fatto di corridoi, ma in quel momento non si vedevano, perché ogni singolo centimetro quadro libero era occupato da una persona, ma la conoscenza di una cosa condiziona la percezione di essa. Tenevo salda la sua mano, mentre scivolavamo lungo muri altissimi, mentre salivamo scale ripidissime, mentre oltrepassavamo porte che davano su altri corridoi dai muri altissimi e altre scale ripidissime, tenevo salda la sua mano, per non perdermi, per non perderci, schiacciati da una folla brulicante, una massa unica, viva, incosciente, come un'enorme ameba informe, in grado di deformarsi a suo piacere. Sentivo la pressione di decine di corpi estranei sulla mia pellebraccia, pance, schiene, mani, seni strisciavano su di me senza ritegno, senza permesso, era una sensazione strana, come se questo enorme essere, questa ameba, mi stesse abbracciando (Dio! Cosa si arriva a pensare in momenti di carenza di affetto), mi stesse inglobando, facendomi sentire parte di qualcosa in realtà a me estraneo, qualcosa di cui non sapevo nulla, un organismo composto da cellule sconosciute, era strano, era piacevole, ma faceva paura, una volta si sarebbe detto che era sublime, è un concetto di sottomissione, ed effettivamente in qualche modo ero costretta a sottomettermi, perché questa creatura era più forte di me, nonostante io contribuissi con la mia presenza alla sua esistenza e alla sua potenzaquindi, probabilmente, da qualche parte qualcun altro avrà provato sensazioni simili anche per colpa mia, si sarà sentito sottomesso anche da me, e questo dava una sensazione di pseudo-potere, si può essere padroni e sudditi allo stesso momento?, mi chiedevo, e poi pensavo che il mondo fuori, oltre questi muri altissimi, oltre questi corridoi lunghissimi, era fatto esattamente allo stesso modo, non cambiava nulla, era solo infinitamente più grande e infinitamente più incontrollabile.
Poi, nel bel mezzo delle mie riflessioni, arrivammo davanti a una porta con appesa la figura stilizzata di una donna. "Finalmente," pensai.
Due minuti dopo, eravamo già fuori, liberati da pesi inutili. "Andiamo a bere," propose qualcuno. "Andiamo."

(febbraio 2012) 

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